Riportiamo l'intera omelia dell'arcivescovo di Firenze Giuseppe Betori in occasione della Messa di Natale del 25 dicembre 2017 presso il duomo di Santa Maria del Fiore
«In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. […] E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,1.14a). In queste essenziali espressioni del vangelo di Giovanni sta tutto il mistero del Natale e lo “scandalo” della nostra fede. Noi crediamo infatti che Dio, il Tutt’altro, si sia fatto uomo, sia diventato uno di noi, e che un uomo, Gesù di Nazareth, un ebreo vissuto in Palestina circa duemila anni fa, sia Dio. In lui Dio e l’uomo si uniscono e diventano una persona sola.
Dietro a questo mistero contempliamo un duplice movimento: da una parte l’abbassarsi di Dio, l’Assoluto che si fa limitato, l’Onnipotente che si fa fragile; dall’altro l’esaltazione dell’uomo, la creatura che viene innalzata, l’umano che diventa capace di accogliere il divino. E dobbiamo al tempo stesso constatare che ambedue questi volti del mistero vengono a confliggere con tendenze assai diffuse nel pensiero dei nostri giorni.
Il limite, quel limite che il Verbo, la Parola, il Figlio di Dio viene ad abbracciare nel farsi figlio di Maria, bambino di Betlemme, è oggi percepito dai più non come un’aspirazione ma come un ostacolo da abbattere. L’uomo contemporaneo, sulla scia dell’uomo moderno, aspira a superare ogni limite che gli si opponga; in particolare egli intende valicare ogni limite posto alle sue aspirazioni e alle sue possibilità. Ciò che si cerca è la realizzazione concreta dell’autodeterminazione in ogni ambito della vita. Ne sono particolarmente coinvolte le sfere della sessualità, dei rapporti di coppia, del dare la vita e di controllarne la fine. Ma non ne sono esenti ambiti più quotidiani, come quello del lavoro e della festa.
Oggi si chiede di superare il limite che la festa pone all’esercizio del lavoro – che, senza un limite, da manifestazione del potere creativo diventa esperienza di soggezione e svela tutto il peso della fatica –, e nel fare questa richiesta si antepongono le ragioni della produttività e del consumo a quelle della umanità. Ciò che è in gioco nell’apertura dei centri commerciali nei giorni di domenica e di festa – e che ultimamente qualcuno ha voluto estendere perfino a oggi, il giorno di Natale – non è la possibilità o meno di frequentare i riti religiosi, ma poter o meno avere spazi di umanità, di affetti familiari, di riflessione personale e distensione, di incontri amicali. Nel difendere la domenica e la festa, nel difendere il Natale dall’offensiva consumistica, ciò che sta a cuore alla Chiesa è difendere la persona umana e la società, non le pratiche religiose.
Ho voluto soffermarmi un poco su questa vicenda dei centri commerciali che si vogliono aperti anche a Natale, non tanto perché questo sia oggi il più grave dei problemi della nostra società – ce ne sono ben altri, come attestano le cronache della guerra, della violenza e della povertà ogni giorno –, ma perché in esso emerge con tutta evidenza come laddove non si accetti il limite, quel limite che Dio ha abbracciato per stare con gli uomini, è l’uomo stesso che viene messo in crisi. C’è invece da riconoscere, e questo in tutti gli ambiti della vita umana, che è proprio il limite ciò che ci permette di stare nella storia, perché la storia è fatta di eventi concreti e non di assoluti, e di stare con gli altri, evitando prevaricazioni ed emarginazioni.
E queste ultime parole inducono a un’ulteriore riflessione. La forma fragile, debole del divino che si fa umano, di quel Figlio di Dio che si fa bambino a Betlemme e ci chiederà poi di riconoscerlo nel volto di ogni povero ed emarginato, ci indica la strada di un ritorno alla verità dell’uomo che non potrà mai essere alternativa al suo bene. Il bene di una persona non potrà mai essere cercato al di fuori della sua verità, cioè della sua natura più profonda, quella che, appunto, Dio ha tanto amato da assumerla nella persona del suo Figlio Gesù. Il riconoscimento che Dio offre alla condizione umana, assumendola come sua presenza nella storia, è un invito a inchinarci di fronte alla realtà, riconoscendone la verità, senza pensare che ci possa essere un bene per qualcuno che possa implicare la sua negazione o una sua affermazione decurtata.
E veniamo all’altra dimensione che si realizza nell’incarnazione del Verbo, è cioè l’innalzamento dell’umanità alla vita divina, in Gesù dapprima e poi, per sua grazia, per ogni uomo e donna che entrano nel suo discepolato. E anche in questo caso incontriamo nella cultura oggi dominante tendenze che ostacolano questo riconoscimento.
Lo è in particolare la spinta ad appiattire l’esistenza umana entro i confini di una ristretta materialità. Lo si constata nell’invito a ridurre le aspirazioni personali entro i limiti dei bisogni materiali e a misurare la riuscita di una vita con riferimento al possesso dei beni. Ne è espressione il predominio dei fattori e delle istanze economiche nello stabilire finalità e poteri nella vita sociale. Ma in questa visione dell’umano che ne oscura gli orizzonti della trascendenza rientrano pure la varie forme con cui si vorrebbe ricondurre la specificità dell’umano a una semplice variante del mondo animale, E, infine, non vanno dimenticati i modi con cui si cercano di soffocare gli spazi dello spirito, considerati alienanti rispetto al dominio che andrebbe riservato all’istintualità, a cui viene sempre più ricondotta l’autenticità dei desideri.
L’umanità che in Gesù viene unita alla divinità ci ricorda invece che proprio nella sfera del divino si dà compiuta finalità alla nostra umanità. Ne era ben consapevole il nostro Poeta che mentre fa dire ad Ulisse «fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza» (Inf. XXVI, 119-120), mostra anche che il superamento di sé l’uomo può perseguirlo compiutamente solo in virtù della grazia divina e verso di essa. Le ragioni dello spirito sono l’autentico fondamento dell’umanità. E preoccupa come oggi tali ragioni vengano così spesso oscurate. Appare questo evidente quando in una società in cui ciascuno rivendica la libertà di poter attuare ciò che sembra opportuno per sé, l’unica libertà che non si vorrebbe riconoscere è proprio quella della coscienza, lo spazio più sacro della persona, l’ambito di noi in cui risplende la vocazione alla trascendenza.
Questo è il mistero del Natale. Invito ad accettare la nostra condizione di creatura, il nostro limite e la nostra fragilità, come lo spazio della nostra vera possibilità, così come l’umanità di un bambino è stata la possibilità per Dio di salvarci. Invito ad aprirsi ad orizzonti di trascendenza, che ci facciano uscire da un immanentismo senza futuro, così come l’accoglienza del Verbo di Dio nella fragilità di un bambino ha fatto dell’umanità crocifissa di Cristo lo strumento di redenzione del mondo. Questa consapevolezza e questa aspirazione nutrano il nostro Natale. Buon Natale.
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