Moser, lo 'sceriffo' che visse due volte

Moser impegnato nel record dell'ora

Lo scorso luglio, Francesco Moser è stato ospite al Museo del Vetro del Comune di Empoli, nell’ambito della rassegna estiva che porta lo stesso titolo di questo blog. Nella lunga chiacchierata che ha ripercorso la sua prestigiosa carriera sono apparsi evidenti alcuni tratti caratteriali che spiegano, insieme alle eccellenti doti fisiche, il perché è il corridore italiano più vincente della storia - con 273 primi posti, il trentino occupa il gradino più basso del podio ideale nella graduatoria mondiale, alle spalle dell’inarrivabile Eddy Merckx, che ne totalizzò ben 426, e di Rik Van Looy (379).

Moser sfoggia ancora un’invidiabile sicurezza di sé, esprime orgoglio per le proprie radici contadine e per i semplici ma saldi princìpi che queste gli hanno trasmesso e di conseguenza crede fermamente in poche e chiare regole di vita. Ne risulta una miscela di tetragona convinzione, peraltro rafforzata da un volto che pare scolpito nella roccia e che sta in cima a un fisico mirabilmente tonico per un ex-atleta che ha passato i sessant’anni. Ascoltandolo, il popolare Snoopy creato dalla matita di Charles Schulz avrebbe ironicamente commentato: «È difficile essere modesti, quando si è i migliori!».

Altri invece sottolineerebbero malignamente la testardaggine e lo schematismo dell’anziano campione, incapace di comprendere la natura feconda del dubbio perché prigioniero di una penalizzante rigidità di giudizio. Questo punto di vista però cozza clamorosamente con quanto successe il 23 gennaio 1984, a Città del Messico, quando Moser ritoccò il record dell’ora, di cui si era già appropriato quattro giorni prima, strappandolo a Merckx e diventando il primo uomo ad abbattere il limite dei 50 km. La spedizione messicana fu il coronamento di un progetto accuratamente pensato da una nutrita equipe di scienziati, cui Moser si affidò anima e corpo, dimostrando un’elasticità di pensiero che pochi gli accreditavano e che gli consentì di divenire il pioniere del ciclismo hi-tech, da ultimo epigono dell’epoca eroica delle due ruote che era stato.

Nato a Palù di Giovo il 19 giugno 1951, Moser ha sempre considerato un valore le proprie origini rurali, cui è tornato dopo aver appeso la bici al chiodo per consolidare un’avviata azienda agricola cui è dedita oggi tutta la famiglia. Anche negli anni della sua straordinaria parabola agonistica, non era raro vedere fotografie che lo raffiguravano alla guida di un trattore o intento a potare le amate e preziose vigne. Anzi, è noto l’aneddoto della madre che non mancò di lamentarsi al manifestarsi della vocazione sportiva di Francesco (dopo quelle dei fratelli maggiori Aldo, Enzo e Diego, che erano stati ciclisti di discreto valore), giacché le sarebbero venute a mancare altre braccia per il lavoro nei campi. Dagli addetti ai lavori, Moser era inoltre indicato come solo erede degli eroi che avevano acceso l’entusiasmo dei tifosi sulle strade sterrate del dopoguerra, mentre il paese a fatica cercava la via della ricostruzione e un risarcimento per le ferite materiali e psicologiche lasciate dal conflitto mondiale. Fu poi il particolare feeling con la Parigi-Roubaix, battezzata “Inferno del Nord” per il fango e il pavé, vinta per tre volte consecutive nel periodo 1978-80, a confermarne la matrice di corridore di altri tempi.

Anche lo stile in corsa ricordava il carattere arrembante del ciclismo d’antan: il marchio di fabbrica erano la ricerca della fuga e la stoccata da lontano per scremare il gruppo a un esile drappello di audaci cui infliggere il castigo dello sprint a ranghi ridotti, sapendo bene di non essere in grado di competere negli arrivi affollati, nei quali pagava dazio ai velocisti puri, come l’arci-rivale Giuseppe Saronni, con cui proprio non poteva andare d’accordo perché le opposte caratteristiche tecniche avevano forgiato due forti personalità antitetiche.

Tutto questo collocava Moser nel solco dei capostipiti, cui era felice di essere accostato, andando con autostima pari solo alla sfrontatezza al confronto serrato con il totem Merckx e il suo alter ego italiano, Felice Gimondi, che dominavano le corse quando Moser fece il suo ingresso nel circo del ciclismo. Lo spavaldo giovanotto non pativa alcun timore reverenziale, neanche nei confronti del “cannibale” belga: «No assolutamente, non ho mai avuto paura – ha detto Moser nell’intervista sopra citata -, nemmeno di Merckx, che allora beneficiava oltre i suoi pur enormi meriti di un forte ascendente nei confronti dei rivali; Gimondi per esempio gli stava a ruota ed era soddisfatto di arrivare secondo, io invece volevo batterlo e così, insieme ad altri giovani come Freddy Maertens, cominciai ad attaccarlo in ogni occasione».

Di suo, Moser aggiunse un naturale carisma nella conduzione della squadra (mai fu gregario, neanche all’esordio nel 1973) e poi dell’intero plotone, tanto da meritare il soprannome di “sceriffo” di cui va sempre fiero, benché l’appellativo rimandi a una scarsa – per così dire – attitudine al confronto e al dialogo, a favore invece di una spiccia imposizione dell’autorità da parte del più forte.

Così attrezzato, Moser ingaggiò aspre e spettacolari battaglie sui percorsi di tutto il mondo, sempre a viso aperto, molto vincendo e qualche volta soccombendo, come succede a chi combatte sempre in prima linea. Oltre alle citate Roubaix, inanellò due Giri di Lombardia, Freccia Vallone e Gand-Wevelgem, un paio di Tirreno-Adriatico e di titoli tricolori, indossando la maglia di campione del mondo nel 1977, in mezzo a due secondi posti nella gara dell’iride, dietro a Maertens nel 1976 e a Gerrie Knetemann nel 1978.

Poco avvezzo alle salite prolungate, dominatore nelle cronometro e sul passo, gli fu per molto tempo indigesto il Giro d’Italia, nonostante il patron Vincenzo Torriani gli approntasse tracciati propizi. Gliela sottrassero, la corsa rosa, inattesi carneadi come Michel Pollentier e l’enfant prodige Saronni, che ad appena 21 anni lo sconfisse sul terreno prediletto della gara contro il tempo, nella frazione che nell’edizione del 1979 arrivava a San Marino. Poi, il Giro divenne terreno di conquista di Bernard Hinault, il formidabile bretone che vi accoppiava i trionfi al Tour de France e, doppiata la boa dei 30 anni, Moser parve malinconicamente imboccare l’inevitabile viale del tramonto.

Fu allora che il trentino si esibì nell’inattesa torsione che lo votò al ciclismo scientifico e lo calò nei panni dell’innovatore, lui che era considerato l’ultimo rappresentante dell’era omerica del pedale e figlio legittimo dell’Italia contadina e perciò stesso condannato all’arretratezza culturale. Nell’estate del 1983 accettò le lusinghe della Enervit, l’azienda di bevande energetiche che aveva messo in piedi una task force di esperti e che cercava il corridore giusto per dare l’assalto al record dell’ora, da qualche anno finito nel dimenticatoio: «Nel 1974 nella mia squadra correva Ole Ritter – racconta Moser - che era stato il primo ad approfittare dell’altura messicana per stabilire il primato nel 1968, e dopo che Merckx glielo aveva sottratto nel 1972, volle riprovarci proprio nel ’74 e io lo accompagnai nel tentativo che non fu fortunato. Inoltre, ero solito correre, e vincere, le “Sei giorni” e nel 1976 avevo conquistato la maglia iridata nell’inseguimento individuale, quindi per me la pista era un terreno di caccia abbastanza familiare. Quando la Enervit mi fece  l’offerta, dichiarando che sarei stato assistito in ogni momento dal punto di vista tecnico, medico-atletico e alimentare, accettai la sfida. In autunno, cominciammo la preparazione specifica, la ricerca sui materiali e l’abbigliamento e tutto questo mi dette nuovi stimoli, dopo 10 anni di professionismo: mi sentivo bene, le mie prestazioni miglioravano e il fisico rispondeva, il lavoro dava quindi i frutti sperati».

I metodi di allenamento meticolosi e ultra-moderni, un regime alimentare studiato nei minimi dettagli, una bicicletta avveniristica per coefficienti di aerodinamicità e rigidità del telaio, un’applicazione sistematica dei test effettuati nella galleria del vento, una strana posizione in sella che fu definita della “mantide religiosa”: questa futuribile combinazione spinse Moser ben oltre il limite stabilito da Merckx, addirittura fino a 51,151 km quel 23 gennaio di trent’anni fa.

Sull’abbrivio di quell’impresa, Moser suggellò una carriera già ricchissima con la conquista della prima Milano-Sanremo il 17 marzo 1984, al termine di un classico attacco sferrato nella discesa del Poggio, e soprattutto con l’agognata vittoria al Giro dello stesso anno, quando superò il francese Laurent Fignon nella crono dell’ultima tappa, che si concluse nel suggestivo scenario dell’Arena di Verona. Attardato di un minuto e mezzo, Moser giocò il tutto per tutto e corse su una bicicletta con profilo basso e ruote lenticolari: alla strabiliante media oraria di 50,977 km, inflisse al francese ben 2’24’’ e si prese il Giro alla bella età di 33 anni.

Oggi, nella cantina della tenuta della famiglia Moser, fa bella mostra di sé uno spumante da vitigni Chardonney e Pinot nero, significativamente denominato “51,151”: quella bottiglia esprime meglio di ogni altro simbolo la riconoscenza del campione per i valori ricevuti in dono dalla terra.

Paolo Bruschi