Non c’è niente di più maestoso del coraggio determinato che le persone
dimostrano quando accettano di sacrificarsi e soffrire per la loro libertà e dignità
Martin Luther King
Con il film “The butler”, arrivato nei cinema italiani dopo le feste natalizie, il regista Lee Daniels ripercorre quasi un secolo di storia americana, attraverso gli occhi di Cecil Gaines, il maggiordomo nero al servizio di ben 7 presidenti, da Dwight Eisenhower a Ronald Reagan. Ispirato alla vita reale di Eugene Allen e con lo stesso stratagemma narrativo del fortunato “Forrest Gump” di Robert Zemeckis, intorno al ligio e apparentemente pacificato Cecil si muovono i personaggi e accadono gli avvenimenti che hanno segnato l’aspra lotta per i diritti civili della minoranza afro-americana degli Stati Uniti d’America. Dagli echi dei brutali linciaggi negli Stati del Sud ai primi tentativi di de-segregazione nelle scuole, dall’assassinio di John F. Kennedy a quello di Martin Luther King, passando per la battaglia per l’integrazione dei Freedom riders, il movimento delle Black Panther e la Guerra del Vietnam, tutta la cronaca che ha fatto la storia della questione razziale americana fa da sfondo e investe la vita privata del protagonista. Con un’omissione importante, però, visto che non è fatto il minimo cenno al contributo che il mondo dello sport fornì alle ragioni della popolazione di colore soprattutto durante i “formidabili” anni ’60, come nel caso del velocista Tommie Smith, la cui fotografia con il pugno guantato di nero sul podio dei 200 metri alle Olimpiadi di Città del Messico ha marchiato a fuoco l’immaginario di un’epoca contraddistinta da grandi tensioni e alte speranze.
Tommie Smith era nato in Texas nel 1944, il giorno dello sbarco in Normandia, e si era messo in luce come sprinter durante gli anni del college, stabilendo primati ancora oggi imbattuti. L’11 giugno 1966 diventò il primo uomo a correre i 200 metri in 20’’ netti e come titolare del record mondiale divenne il logico favorito per le Olimpiadi che si sarebbero disputate nell’ottobre del 1968 in Messico, mentre il mondo era preda di un fermento globale che scuoteva dalle fondamenta consolidati rapporti sociali, politici e militari.
Con l’Offensiva del Tet e il Massacro di My Lai, il conflitto in Vietnam si era ormai incancrenito in una estenuante prova di forza fra l’esercito più potente del mondo e un indomito popolo alla ricerca della propria indipendenza dopo il lungo dominio coloniale, in un’impasse che causava ogni giorno centinaia di morti e immani distruzioni materiali e ambientali. Ne era nata una robusta corrente d’opinione pacifista e anti-autoritaria sia in America che in Europa, che traeva forza e al contempo alimentava il movimento del “Sessantotto”, la cui carica di contestazione e ribellione spingeva per una radicale trasformazione della società. Anche il Blocco dell’Est era in preda a profonde convulsioni, come dimostravano la “Primavera di Praga” e l’esperimento di democratizzazione del neo-segretario del partito comunista Alexander Dubcek, cui Mosca rispose brutalmente con l’invio dei carri armati nella capitale cecoslovacca. Il 4 aprile, a Memphis, cadde assassinato il reverendo King e milioni di neri inscenarono sollevazioni e rivolte in ogni angolo del paese. Il clamore e lo sdegno per l’uccisione del leader afro-americano si erano appena placati, che il 6 giugno anche Robert Kennedy fu vittima di un attentatore a Los Angeles, nelle cucine dell’hotel dove aveva festeggiato la vittoria nelle primarie della California, che lo ponevano in una posizione di vantaggio nella corsa alla presidenza per il Partito democratico.
Il vento del cambiamento che aveva investito milioni di giovani in tutto il mondo giunse anche a Città del Messico. Il 2 ottobre 1968, al culmine di raduni oceanici cominciati in estate, oltre 5.000 fra studenti e operai si accamparono nella Piazza delle Tre Culture, per protestare contro l’occupazione dell’università da parte dei militari. Alla fine della giornata, l’esercito aprì il fuoco sui manifestanti, lasciando sul terreno centinaia di cadaveri. Anche la giornalista Oriana Fallaci, raggiunta da una raffica di mitra, fu creduta morta: portata in obitorio, fu un prete ad accorgersi che era ancora viva.
Dieci giorni dopo, i XIX Giochi olimpici dell’era moderna si aprirono regolarmente: con il pugno di ferro, i militari avevano riportato la calma nella capitale. In questo clima sovraeccitato, gli atleti non potevano restare indifferenti alle proteste che dilagavano in tutto il pianeta e fra loro proprio Smith era uno dei più risoluti a far sentire la propria voce: nell’ottobre dell’anno prima, insieme al compagno John Carlos, Smith era stato uno dei più attivi nella creazione del “Progetto olimpico per i diritti umani” e durante i Trials, le gare di qualificazione che negli Stati Uniti selezionano le squadre che parteciperanno alle rassegne internazionali, aveva convinto gli atleti neri più in vista a discutere una condotta comune che sollevasse il velo di ipocrisia calato sulla bruciante questione razziale. Smith, Carlos, Bob Beamon, Lee Evans, Ralph Boston e gli altri atleti afro-americani misero ai voti il boicottaggio dei Giochi. Vinse la linea morbida, dato che per tutti loro le Olimpiadi erano un’occasione irripetibile di affermazione sociale ed economica, ma fu raggiunto l’accordo per fare comunque qualcosa. E qualcosa fu fatto.
L’atletica leggera alle Olimpiadi messicane era la disciplina più attesa, per due motivi: l’altitudine e la rarefazione dell’aria avrebbero aiutato le prestazioni dei concorrenti impegnati negli sforzi brevi e intensi, che avrebbero beneficiato anche delle nuove piste in tartan, il materiale sintetico che sostituì il fondo in cenere dove si era corso fino alla precedente edizione di Tokio. E i record piovvero a grappoli: fra gli altri, il britannico David Hemery demolì il primato dei 400 metri hs; Beamon sbriciolò quello del lungo, migliorandolo di ben 55 centimetri, fino alla strabiliante misura di 8,90 metri; Evans abbatté quello dei 400 metri e nei 100 metri l’americano Jim Hines fu il primo a scendere sotto la barriera dei 10 secondi, fino a 9’’95.
Il 15 ottobre toccò finalmente ai 200 metri. Smith e Carlos si qualificarono agevolmente per le semifinali, dove invece non arrivò l’olimpionico di Roma Livio Berruti, eliminato nella batteria dominata da Peter Norman, un biondino australiano che veniva da una famiglia devota all’Esercito della Salvezza. L’indomani, in semifinale, Smith e Carlos diedero spettacolo a distanza, stabilendo uno dopo l’altro il nuovo record olimpico, sempre tallonati dal sorprendente Norman. La finale si tenne sul far della sera, il 16 ottobre. Degli otto uomini ai nastri di partenza, cinque erano di colore: oltre a Smith e Carlos, il francese della Guadalupa Roger Bambuck, Edwin Roberts di Trinidad e Mike Fray della Giamaica. I bianchi erano Norman, il terzo americano Larry Questad e il tedesco Jochen Eigenherr.
Allo sparo, Carlos fu il più rapido a uscire dai blocchi e rimase in testa anche dopo la curva. Poi, la sua falcata si fece meno fluida e potente, fino a che al suo fianco comparve la sagoma allungata e sottile di Smith, che distese il passo sopravanzando facilmente l’amico-rivale. Carlos pensò allora all’argento e prese a voltarsi verso gli avversari alla sua sinistra, ma la torsione ripetuta lo disunì ancor di più, favorendo la rimonta del sottovalutato Norman, che conquistò la piazza d’onore per soli 4 centesimi. Intanto, Smith aveva già alzato le braccia al cielo, compiendo gli ultimi 20 metri completamente rilassato e tuttavia polverizzando il record mondiale, limato fino a 19’’83, per la prima volta sotto i 20 secondi.
Dopo l’exploit, Smith e Carlos si ritirarono a confabulare negli spogliatoi. Smith mostrò a Carlos un paio di guanti neri, che avevano convenuto di indossare per la cerimonia di premiazione. Ma Carlos aveva dimenticato i suoi e allora, mentre Smith imprecava, intervenne Norman, che aveva osservato la scena. Informato del patto dei Trials e della promessa di portare all’attenzione del mondo la condizione dei neri d’America, Norman suggerì ai due di dividersi i guanti, ne indosserete uno ciascuno, disse, e poi, reclamando per sé un distintivo del “Progetto olimpico per i diritti umani”, aggiunse: «Sono solidale con voi. Si nasce tutti uguali e con gli stessi diritti».
I tre si incamminarono verso il podio, si fecero passare le medaglie al collo e si voltarono verso le bandiere per l’esecuzione dell’inno statunitense: Smith leva ora il pugno destro (la forza dell'America nera), Carlos alza il sinistro (l’unità del popolo nero), ma non completamente, dirà in seguito che temeva un’aggressione ed era pronto a battersi; sono entrambi scalzi, a simboleggiare la povertà dei loro simili, mentre la testa reclinata di fronte alla bandiera rende omaggio a tutti quelli che avevano perso la vita per la libertà. Il pubblico fischia, applaude, rumoreggia, ma in pochi si rendono conto che la Storia si fa davanti ai loro occhi.
La reazione del Comitato olimpico internazionale fu immediata: i due furono cacciati dalla squadra olimpica ed espulsi dal villaggio olimpico come appestati. Avery Brundage, l’americano presidente del CIO che alle Olimpiadi di Berlino del 1936 non aveva avuto niente da obiettare al saluto nazista degli atleti tedeschi, riferendosi a Smith e Carlos commentò invece che «le teste deformate e le personalità infette sono ovunque e impossibili da estirpare».
Al ritorno in patria, i due campioni non trovarono fanfare e bande musicali a celebrare il loro successo, ma le minacce di morte del Ku Klux Klan, pacchi di escrementi sulla porta di casa e lettere minatorie, il licenziamento dal lavoro e una grama lotta per la sopravvivenza. A Norman non andò meglio: ostracizzato e bandito dalla squadra nazionale, non fu preso in considerazione per le Olimpiadi del 1972, nonostante avesse superato i limiti sia per i 100 che per i 200 metri. Per sbarcare il lunario, insegnò educazione fisica, arrotondando in una macelleria, fino a che il comitato organizzatore delle Olimpiadi di Sydney del 2000 si dimenticò di invitarlo alla cerimonia inaugurale. Malato di cuore, morì il 6 ottobre 2006. Smith e Carlos attraversarono l’oceano e al funerale sorressero la bara del vecchio avversario.
Protagonisti della fotografia più famosa del “Sessantotto”, Tommie Smith e John Carlos hanno resistito ai decenni di oblio insegnando ginnastica in un piccolo college di Santa Monica e in un liceo di Palm Springs. Dal 2005, nel campus dell’Università di San Jose, in California, campeggia finalmente una statua che ritrae il momento che ha cambiato l’iconografia degli anni ‘60, in onore degli uomini che «si schierarono per la giustizia, la dignità, l’uguaglianza e la pace».
Paolo Bruschi