Qualche storia dietro la finale dei Mondiali femminili di calcio

Stati Uniti e Giappone disputano domani, a Vancouver, la finale della Coppa del mondo, una rassegna oscurata dai media italiani


Esponente di punta del decadentismo albionico tardo-novecentesco, nonché centravanti dell’Inghilterra ai Mondiali del 1986 (quando fu capo-cannoniere) e del 1990, Gary Lineker ha ridotto ai minimi termini l’ormai ultra-centenaria complessità del calcio con un noto aforisma, che può essere così parafrasato: «È uno sport semplice, 22 donne in mutande corrono dietro a un pallone e alla fine vincono le tedesche».

Lena Lotzen e Bastian Schweinsteiger celebrano in Municipio la vittoria nella Bundesliga 2015 femminile e maschile delle squadre di Monaco

Lena Lotzen e Bastian Schweinsteiger celebrano in Municipio la vittoria nella Bundesliga 2015 femminile e maschile delle squadre di Monaco

L’adeguamento di genere è d’uopo mentre si attende la finale degli ignorati (dai principali giornali italiani) settimi Campionati mondiali femminili, cui la Germania avrebbe partecipato se solo avesse tenuto fede al proprio ruolo di n. 1 del ranking FIFA e di dominatrice incontrastata a livello continentale, avendo vinto gli ultimi sei titoli europei e otto in totale, ai quali vanno aggiunte, beninteso, le due Coppe del mondo del 2003 e 2007. All’origine di tale primato stanno la diffusissima abitudine delle ragazze tedesche di dedicarsi al fußball, il consistente seguito di pubblico e una solida organizzazione federale. Tuttavia, alla rassegna iridata in corso in Canada, dopo l’autorevole cammino nel gruppo di qualificazione, impreziosito dalla sonante vittoria per 10-0 contro la Costa d’Avorio, e il passaggio di ottavi e quarti di finale ai danni di Svezia e Francia, le giocatrici della coach Silvia Neid sono state estromesse in semifinale dagli Stati Uniti, l’altra superpotenza del calcio femminile, che hanno potuto beneficiare di un rigore inesistente concesso dall’arbitra Teodora Albon, non prima di esser state graziate da Célia Šašić, l’attaccante di origine camerunense che sullo 0-0 ha spedito a lato il penalty che poteva valere la finale per la Germania.

Gli USA erano entrati nella competizione sulla scia delle polemiche generate dalla scelta di disputare l’intera competizione su campi sintetici: l’erba artificiale è infatti un’opzione sempre più praticata, visti i ridotti costi di manutenzione che sovra-compensano la maggior spesa di installazione. Megan Rapinoe e Abby Wambach, due atlete di punta della rappresentativa americana, si posero perciò alla testa di un folto gruppo di colleghe che fecero causa alla FIFA per indurla a finanziare la posa di erba vera negli stadi canadesi, individuando nella querelle un ulteriore sintomo dell’insufficiente supporto che la Federazione internazionale riserva alle competizioni femminili rispetto a quelle maschili. Rapinoe arrivò a dichiarare: «La FIFA ha accumulato 338 milioni di dollari di profitti con la Coppa del mondo maschile del 2014 e dire che non è logisticamente possibile farci giocare su prati veri è inaccettabile». Sepp Blatter non solo dette istruzioni di resistere in tribunale, ma, secondo un certo numero di atlete, minacciò ritorsioni contro le ricorrenti, facendo intendere alle federazioni nazionali che sarebbe stata impedita la partecipazione ai mondiali alle giocatrici che avessero continuato la causa.

Alcuni medici sostengono che il gioco sui prati artificiali fa aumentare gli infortuni

Alcuni medici sostengono che il gioco sui prati artificiali fa aumentare gli infortuni

Del resto, ben prima che Felice Belloli, presidente della Lega nazionale dilettanti, insultasse tutte le donne italiane definendo le calciatrici “quattro lesbiche”, il non proprio irreprensibile presidente della FIFA aveva liberato il suo inveterato maschilismo, suggerendo che le calciatrici indossassero divise più sexy allo scopo di incrementare la popolarità del calcio femminile. Si capisce bene pertanto come la storia dei Mondiali di calcio femminili sia soprattutto una lotta per guadagnare rispetto e pari opportunità contro un’elite maschile che ha ostacolato piuttosto che favorito la promozione dello sport più popolare del pianeta fra le donne. L’ostracismo verso il gioco femminile ha radici secolari. Forse per rispondere al crescente seguito generato dalle partite di calcio femminile, che si erano moltiplicate per ovvie ragioni durante il primo conflitto mondiale, nel 1921 la Federazione calcistica inglese passò una risoluzione che esprimeva la ferma convinzione che il calcio era inadatto alle donne, che perciò dovevano essere scoraggiate dal praticarlo. Fu così impartito ai club maschili l’ordine di rifiutare gli stadi alle partite di calcio femminile. Molte altre federazioni fecero lo stesso e solo a partire dalla fine degli anni ’60 il bando fu rimosso.

Il maschilismo e la discriminazione che angariano le calciatrici è ben esemplificato dalle vicende della nazionale brasiliana, che si avvale dei servigi di Marta Vieira da Silva, fuoriclasse indiscussa e cinque volte vincitrice del premio di miglior giocatrice del mondo. Marta, che gioca con l’evocativa maglia n. 10, è originaria del Sertão, la regione semi-arida del nord-est brasiliano, e da bambina imparò a giocare a calcio contro la volontà dei genitori e dei fratelli, che non esitavano a picchiarla per dissuaderla dalla sua passione. Proprio con un gol contro la Corea del Sud nella gara inaugurale della rassegna si è appropriata del record di reti nella fase finale dei Mondiali, portandolo a 15, senza per questo meritare un minimo cenno sui principali quotidiani carioca. Come è spesso accaduto agli omologhi della Seleçao, le donne in giallo-oro hanno finito per soccombere contro l’Australia, dopo aver largamente dominato, a causa di una papera della portiere Luciana.

Marta festeggia con la compagna Formiga il gol contro la Corea del Sud

Marta festeggia con la compagna Formiga il gol contro la Corea del Sud

Le australiane hanno a loro volta ceduto il passo alle veloci e indomite giapponesi, che regalano molti centimetri in altezza alle avversarie, focalizzando il proprio gioco su passaggi rapidi e stretti, favoriti da un eccellente controllo di palla. Ne hanno fatto le spese anche le sorprendenti inglesi, i cui inattesi successi avevano destato l’interesse della Corona e resuscitato l’orgoglio della patria che si onora di aver inventato il gioco, ormai tristemente avvezza agli annosi rovesci degli uomini.

Carli Lloyd e Jill Ellis

Carli Lloyd e Jill Ellis

L’atto conclusivo, in programma domani a Vancouver, vedrà dunque una riedizione dello scontro del Pacifico fra Stati Uniti e Giappone. Nel 2011, a Francoforte, di fronte a ben 48.000 spettatori, furono le ragazze del Sol Levante a prevalere ai tiri dal dischetto, dopo aver raggiunto le rivali in extremis sia nei tempi regolamentari che ai supplementari. Alle Olimpiadi di Londra, le statunitensi si presero la pronta rivincita conquistando il gradino più alto del podio con il punteggio di 2-1 e anche in questa circostanza appaiono leggermente favorite. Un fattore extra-sportivo potrebbe ulteriormente spingerle verso il successo: la recente decisione della Corte Suprema che, con cinque voti contro quattro, ha stabilito che il matrimonio è un diritto costituzionale da garantire anche alle coppie dello stesso sesso. «Aspettavamo questo momento da anni e siamo felicissime che sia arrivato», ha commentato Wambach, che è sposata dal 2013 con Sarah Huffman, mentre l’allenatrice Jill Ellis, che vive a Miami con la moglie Betsy Stephenson e la loro figlia Lily, ha sottolineato la portata storica dell’evento e l’enorme passo in avanti compiuto nella battaglia per l’uguaglianza. L’autrice della doppietta che valse l’oro olimpico nel 2012, la bomber Carli Lloyd, richiesta di spiegare che cosa intravedeva di nuovo nel gioco della squadra dopo la sentenza, ha invece risposto icasticamente: «La libertà».

Paolo Bruschi