Attraverso i memorabili duelli con Ocaña e Gimondi, ricordiamo il "cannibale" che domani taglia un importante traguardo e che per poco non chiuse la carriera a Empoli
Percorri una strada in macchina, e te ne fai un’idea. Poi la percorri in bici, e cambi idea
Edouard Louis Joseph Merckx, detto Eddy
Non si vincono mezzo migliaio di corse senza farsi neanche un nemico.
Non è chiaro quante volte abbia vinto Eddy Merckx. Chi dice 426, chi sale a 525, chi gli attribuisce numeri ancora diversi. È invece chiaro chi non si sprecherebbe per presentargli i propri omaggi in occasione del 70esimo compleanno, che ricorre il 17 giugno: senz’altro, Luis Ocaña. Se fosse vivo.
Un tipo capace di vincere quasi una gara su tre di quelle disputate, dev’essere stato un incubo per tutti i suoi rivali, soprattutto per quelli con fondate ambizioni di successo, che lui stroncava immancabilmente. Per lo scalatore spagnolo, che lo chiamava El Puta, era invece un’autentica ossessione. Aveva comprato e allevato un cane solo per chiamarlo Merckx: lo maltrattava e gli dava ordini allo stesso modo in cui il suo omonimo sui pedali signoreggiava su gregari e avversari. Fu sulle strade di Francia che i due battagliarono aspramente: erano di fatto coetanei, visto che lo spagnolo era nato il 9 giugno 1945, ma la maturazione agonistica di Merckx fu più rapida di quella del grimpeur castigliano che all’arrivo in gruppo lo trovò già sotto il dominio del “cannibale”. Non se ne curò e prese a sfidarlo con piglio deciso.
Al Tour del 1971, la prima tappa alpina partì da Grenoble, sotto un sole implacabile. Merckx lo soffriva. L’iberico mollò la compagnia a 70 km dal traguardo. Eddy non riuscì a tenere le ruote nemmeno di Van Impe, Zoetemelk e Agostinho e giunse sul traguardo di Orcières-Merlette con un ritardo abissale. Ocaña indossò la maglia gialla e Merckx franò al quinto posto, a 9’42 dalla vetta: «Luis ci ha matati tutti, me per primo, come El Cordobes fa coi tori», ammise il sovrano detronizzato, meditando però l’immediata riscossa. L’indomani mise alla frusta i suoi e si involò subito dopo la partenza. Imbottigliato nella pancia del gruppo, Ocaña fu costretto a inseguire per 200 km. A ritmo indiavolato, il drappello dei fuggitivi arrivò a Marsiglia prima della banda che doveva accogliere i corridori, ma la maglia gialla perse appena due minuti.
Pareva fatta per l’iberico. Nella prima tappa pirenaica, Merckx inscenò delle progressioni furiose e scatti a ripetizione, senza però riuscire a fare il vuoto. Sul Col de Menté, un nubifragio si rovesciò sui ciclisti e la discesa diventò una sfida per la vita. Torrenti d’acqua mista a fango resero il fondo stradale una pasta viscida su cui l’impavido Merckx danzava con terribile determinazione. Fino a una curva fatale, dove sbatté sul parapetto che delimitava la carreggiata, restando miracolosamente in piedi. Ocaña, che seguiva a ruota, perse invece l’equilibrio e quando fece per rimettersi in sella fu centrato da Zoetemelk e Agostinho. Da quel groviglio di ossa e metallo, non si rialzò. Fu la fine del suo Tour. Sul traguardo di Luchon, il belga riprese la testa della classifica, che avrebbe conservato fino a Parigi, ma rifiutò di indossare la maglia gialla per rispetto nei confronti dello sfortunato rivale.
Anche l’anno dopo, la iella si accanì contro Ocaña, che cadde sul Col d’Aubisque e fu costretto al ritiro per un’infezione polmonare che quasi lo uccise. Si aggiudicò infine la Grande Boucle nel 1973, ma non poté togliersi la soddisfazione di mettersi alle spalle il “cannibale”, che aveva saltato la corsa francese per concentrarsi su Giro e Vuelta, entrambi conquistati a mani basse.
Il destino tragico di Ocaña si compì nel maggio del 1994, quando si sparò in preda alla depressione, forse causata da una delusione d’amore, forse da un tracollo economico. Merckx gli rese omaggio partecipando alle esequie funebri, così come nel 1967 era stato l’unico professionista a recarsi al funerale del compagno di squadra Tom Simpson, perito durante l’ascesa del Mont Ventoux a causa di un colpo di calore peggiorato dalle anfetamine. Anche il belga era caduto nella rete dell’antidoping, quando fu squalificato per la presunta assunzione di fencamfamina mentre stava al solito tiranneggiando al Giro d’Italia del 1969. La vicenda, resa oscura dalle incrollabili proclamazioni d’innocenza del campione fiammingo, scatenò un putiferio internazionale, che coinvolse l’allora Ministro degli Esteri Pietro Nenni e costò ai numerosi italiani emigrati in Belgio un’ondata di xenofobia.
Fu allora Felice Gimondi, sua abituale vittima sportiva, a manifestargli solidarietà e comprensione: avrebbe vinto il Giro, ma il giorno dopo il bergamasco, già secondo nella graduatoria generale, rifiutò di partire con la maglia rosa. Non fu il solo caso di reciproche manifestazioni di cavalleria fra i due rivali, che attraversarono insieme oltre dieci anni di ciclismo internazionale, con grande disdetta per l’azzurro che perciò vinse assai meno di quanto avesse lasciato presagire la sua autorevole venuta alla ribalta, nel 1965, quando trionfò al Tour de France da gregario di Vittorio Adorni – qualche volta, in effetti, ottenne insperate vittorie approfittando delle invidie e dei risentimenti che Merckx aveva generato nel gruppo, come successe ai Mondiali del 1973, a Barcellona, quando la stretta marcatura che si montavano vicendevolmente Ocaña, Merckx e il connazionale Freddy Martens, favorì infine lo sprint dell’italiano.
Di tre anni meno giovane, Gimondi assistette impotente all’irresistibile ascesa del “cannibale” e, da una sorprendente posizione di forza, anche al suo declino. Dopo averne sempre mangiato la polvere nelle grandi corse a tappe, al Giro del 1976, ormai 34enne e stoltamente sottovalutato, Felice si mise finalmente alle spalle Eddy, debilitato dall’inesorabile logorio di una carriera stellare ma dispendiosissima, e inanellò la sua terza corsa rosa. Si prese persino la soddisfazione di batterlo in volata alla terz’ultima tappa, nella sua Bergamo, sferrando poi l’attacco decisivo all’inatteso Johan De Muynck, che per soli 19 secondi cedette il simbolo del primato nella cronometro individuale di Arcore.
Fu la fine del più forte ciclista di tutti i tempi, la cui parabola venne accorciata dall’inestinguibile sete di successi e dall’inesauribile generosità. L’anno prima, nel fallito tentativo di aggiudicarsi il sesto Tour de France, Merckx aveva stoicamente resistito a un pugno che uno spettatore gli aveva sferrato durante la salita del Puy de Dôme e alla frattura della mandibola, riportata in una collisione con Ole Ritter prima della tappa di Valloire. Benché il medico lo scongiurasse di abbandonare e avesse difficoltà a nutrirsi, Merckx volle giungere fino a Parigi, soprattutto per garantire ai compagni della Molteni i ricchi premi assicuratigli dal secondo posto in classifica e dalle altre graduatorie di specialità. Anni dopo, commentò: «È l'unico vero rammarico della mia carriera. Non avrei dovuto continuare dopo Valloire, questa decisione sbagliata certamente mi è costata un paio di vittorie e forse un paio di anni buoni».
Quel misto di protervia, tenacia e fairplay verso compagni e rivali, che scandì tutta la parabola agonistica di Merckx, fu riconosciuto proprio da Gimondi, quando volle riverire l’eccellente statura morale di colui che l’aveva costantemente relegato fra gli sconfitti, sostenendo che il belga, pur sofferente, aveva voluto concludere il Giro del ’76 soprattutto per scortarlo fino al successo e consentirgli finalmente di batterlo in una corsa a tappe. Merckx ricambiò indicandolo come il rivale più ammirato: «Gimondi aveva più di una ragione per provare risentimento nei miei confronti, ma non l’ho mai avvertito da parte sua. Era il simbolo stesso della dignità. Ho ammirato la sua forza di carattere, la sua cortesia, la sua delicatezza quasi ascetica. Ha corso sempre come un gentiluomo e ha accresciuto la reputazione della nostra professione».
Alla fine del 1976, il “cannibale” sapeva ormai di essere solo l’ombra di se stesso, ma non osava confessarselo, né l’ambiente poteva credere che non sarebbe rinato dalle sue ceneri, come quando, nel settembre 1969, era caduto sulla pista del velodromo di Blois, riportando una profonda ferita alla testa, la dislocazione del bacino e restando incosciente per 45 minuti. Alfredo Martini, uno che era capace di vedere sotto la scorza un po’ indurita della primadonna superba, lo convinse a fare da chioccia alla giovane squadra toscana finanziata dalla Sammontana, di cui era direttore tecnico. Tutto era definito con l’azienda di gelati perché l’asso belga chiudesse la carriera a Empoli, ma alla fine l’accordo saltò per la strenua opposizione del consiglio di fabbrica, contrario a dirottare così tanti soldi su una sponsorizzazione.
Il 10 febbraio 1978, in coppia con il fido Patrick Sercu, il “cannibale” ottenne l’ultimo successo, sulla pista di Zurigo. Il 18 marzo successivo, tagliò il traguardo in dodicesima posizione sul circuito di Kemzeke, scese dalla bici e non ci rimontò più.
Paolo Bruschi