Una serata con Benedetto Ferrara, all'insegna dell'ironia e del sorriso

Il 15 maggio scorso, il giornalista di "Repubblica" è intervenuto alla rassegna del Comune di Empoli che porta il titolo di questo blog: è stata l'occasione per parlare di giornalismo, Fiorentina e molto altro


Non è facile descrivere l’estroso Benedetto Ferrara. Le definizioni encomiastiche, che sarebbero appropriate, scadono nella retorica se confrontate col suo stile ironico e la sua naturale vocazione all’understatement. Eppure, il giornalista di Repubblica, che venerdì scorso è stato ospite degli Assessorati allo Sport e alla Cultura del Comune di Empoli, nel quadro della rassegna Essere campioni è un dettaglio realizzata dall’ASEV, ha non poche qualità. Anzitutto, nel racconto delle vicende calcistiche e della Fiorentina, cui si dedica in via principale, predilige un taglio scherzoso e beffardo, che distanzia di molte lunghezze le cifre stilistiche di stuoli di cronisti, quasi tutti schiacciati dalla pesantezza e dalla vuota enfasi che contraddistingue il racconto sportivo dei giornali e della televisione: «Se noi rendiamo pesante lo sport» minimizza Ferrara «siamo dei masochisti, ci facciamo del male. Io sono cresciuto leggendo Stefano Benni e Michele Serra, due mostri sacri, da cui ho imparato a mettere leggerezza nelle cose che scrivo e faccio. Non è un talento speciale, è solo la mia natura: se vado a una conferenza stampa io sono attratto dal lato surreale, dalla gente che si accalca per il rinfresco; se vedo Diego Della Valle con quaranta braccialetti e diciotto sciarpe non posso far finta di nulla; e Dario Nardella che alza il pollice con Ron Howard non può essere preso troppo sul serio».

«Due sono le cose importanti nel mio lavoro» continua. «La prima è che se c’è qualcosa di serio da dire, devi avere il coraggio di farlo e ci deve essere qualcuno che ti ascolta. Il che ci conduce al secondo elemento, che reputo fondamentale: i giornali sono cambiati, perdono copie perché le persone sono attratte da altre fonti di informazione, più tempestive e rapide, per cui occorre battere nuove strade, altrimenti si fanno pagine su pagine tutte uguali l’una all’altra».

Un momento della serata che si è tenuta al Cenacolo degli Agostiniani

Un momento della serata che si è tenuta al Cenacolo degli Agostiniani

E in questo mondo rivoluzionato, Ferrara si muove con grande agio, dimostrando un singolare eclettismo. Disinvoltamente padroneggia la nuova comunicazione social, mantenendo una sintonia costante con migliaia di tifosi e musicofili che lo seguono entusiasti. Anima Rock & gol, un blog intelligente e arguto, in cui mescola e sintetizza le sue molte passioni. A notte semifonda, invade l’etere dai microfoni di Controradio con il programma Nightfly, lui che è stato fra i fondatori di Radio Centofiori nel 1979, l’emittente fiorentina sponsorizzata dal Pci che aveva la falce e il martello nel logo. Dalla radio, è sbarcato sul palcoscenico, portandovi lo spettacolo “Violapop – Meglio in teatro che ladri”, che ha riempito il Puccini per due sere consecutive, ironizzando sulle altalenanti e mai pienamente soddisfacenti sorti della squadra gigliata, che gli offrono inoltre lo spunto per azzeccatissimi e divertenti video demenzial-sportivi. Così destreggiandosi fra diversi registri comunicativi, il cui filo rosso è una tagliente ironia tipicamente fiorentina, sfugge al conformismo urlato e iperbolico della predominante narrazione sportiva, si divincola dalla presa soffocante delle ripetizioni stantie e prive di senso, percorre sentieri non battuti dove sperimenta un linguaggio finalmente vitale e pregnante di significati: «Quando la multimedialità ci ha investiti, sono saltati tutti gli schemi» racconta Ferrara, «abbiamo cercato di maneggiare una materia che però ci era aliena. Cosa posso fare, mi sono chiesto, per restare al passo. Ho recuperato i miei studi di cinema, intrapresi quando volevo diventare sceneggiatore, e mi sono inventato questi filmati demenziali, ironici, come il famoso – tocca dirlo - “l’incubo del tifoso viola”, dopo che la Juventus ci aveva battuto al Franchi per 5-0. Mi puntai il telefonino addosso, appena sveglio, recitai un finto sogno e lo mandai in redazione. Quando ci arrivai nel pomeriggio, scoprii che avevo fatto 40.000 visualizzazioni! Mi chiamò il capo del sito e mi disse che ero diventato una star. Anche Ezio Mauro telefonò da Roma per complimentarsi. Insomma, venti anni di giornalismo buttati via così! Le prime pagine insieme a Gianni Brera, i reportage dalle zone disastrate del pianeta, l’intervista a Valentino Rossi, le Olimpiadi di Londra… tutto eclissato da una trovata estemporanea e pazzoide!».

La vita ha il suo lato comico, dopo tutto…

«E anche il giornalismo. Anni fa, con un collega, ci mettemmo sulle tracce di un direttore sportivo che credevamo in procinto di concludere un ingaggio importante. Lo seguimmo in due in auto, io tutto acquattato, l’altro con il cappello per non farsi riconoscere. Ci portò fino a un autogrill dalle parti di Arezzo. Con le tasche piene di gettoni per telefonare in redazione, ci appostammo in attesa del campione da mettere sotto contratto, ma non compariva nessuno. Finalmente, si fece avanti una tipa tutta tirata con il classico tacco-12, che dopo un po’ riapparve a braccetto del nostro uomo. Insomma, l’avevamo beccato con la ganza! Una figura mai vista, si diventò tutti rossi e ci ritirammo con la coda fra le gambe: non avevamo nemmeno risolto il problema di cosa scrivere sul giornale del giorno dopo!».

Ma come sei diventato un giornalista sportivo?

«Quando mi assunsero a Repubblica, io mi occupavo di musica, del resto a tempo perso continuavo a fare il dj, come da ragazzo. Un giorno, Mario Sconcerti, che dirigeva la sezione di Firenze, mi vide allo stadio e mi chiese se avrei voluto scrivere della Fiorentina. Capirai, ero un tifoso sfegatato. La viola, insieme al rock e ai viaggi, era la mia vita: una volta sognai di segnare il gol decisivo contro la Juventus sotto la curva Fiesole ed ero così coinvolto che diedi un calcio al muro che quasi mi costò una frattura! Insomma, partii così e la prima volta che andai a intervistare Antognoni non credevo a quello che mi stava succedendo. La prima domanda che gli rivolsi fu: “Mi fai un autografo?”. Invece, sono nato giornalisticamente con Roberto Baggio. La mia prima trasferta da inviato fu in Coppa Italia contro il Licata, quando Baggio segnò un gol dopo aver dribblato mezza Sicilia. Seguii poi tutto il tormentone, Baggio resta, Baggio se ne va, fino a che ci trovammo nella sede della squadra il giorno che lo vendettero ai “gobbi”. E io chiesi a Ranieri Pontello se a quel punto avrebbero venduto anche la Fiorentina: “Assolutamente no!”, rispose in diretta su Radio Blu al microfono di David Guetta. Finì di dire “no” e una sassata infranse la finestra!».

A chi ti sei ispirato?

«Il giornalista che preferivo non c’entra nulla con il mio lavoro, era Tiziano Terzani. Da ragazzino, leggevo le sue corrispondenze dal Vietnam e questa cosa mi entusiasmava, volevo anch’io andare in guerra per raccontarla; non a caso poi, da adulto, ho voluto girare dei documentari sui bambini-lavoratori in Peru, in Burkina Faso, su don Renzo Rossi in Brasile, che fu il primo prete a entrare nelle carceri della dittatura… Il mio maestro invece è stato Sconcerti, a lui devo gran parte della mia crescita professionale. Con lui c’è stato un rapporto meraviglioso, anche contrastato, perché mi faceva arrabbiare, era esigente e pretendeva molto. Io andavo ancora in discoteca a mettere i dischi, mi coricavo alle 4 del mattino e lui mi svegliava, mi spronava. “Vieni in redazione”, mi urlava, e questo mi piaceva, perché mio padre non l’aveva mai fatto. Inoltre, Mario era tutto tranne che banale, odiava le frasi fatte del gergo calcistico e mi costringeva a migliorare, a cercare l’originalità. Poi, una volta uscì un mio pezzo in alto nella pagina e sotto c’era quello di Brera: lo ritagliai e lo misi da parte».

Ferrara scrive prevalentemente sull'edizione fiorentina di "Repubblica"

Ferrara scrive prevalentemente sull'edizione fiorentina di "Repubblica"

Qual è la ricetta per essere un buon giornalista?

«La cosa decisiva è considerare il giornalismo un’avventura che non si esaurisce mai, da cui puoi sempre imparare. Aiuta trovare un modello, che ti piace leggere, da cui prendere spunti per farli propri. Non smettere di ampliare il vocabolario, dedicarsi alla lettura; sentire una parola di un ragazzo di oggi e appropriarsene, non per fare il finto giovane ma per essere in grado di comunicare con loro. Preservare lo stimolo della curiosità ed essere umili di fronte alla notizia e alle persone che raccontano la loro storia. Ancora: concentrarsi sui dettagli. Una volta mi infilarono in una stanza con Ronaldo, quello brasiliano. Lui era già stufo, era all’ennesima intervista del giorno e avrebbe voluto già essere altrove. Mi siedo e mi dicono che ho dieci minuti. Dieci minuti non bastano nemmeno a salutarsi, replico. Allora, fui attirato dagli occhi di Ronaldo, le mani, com’era vestito, se parlava velocemente o lentamente, se era sincero oppure no, e queste sono sfumature che impari con la vita, con l’esperienza. Poi, c’è il cuore e la passione, la passione è tutto e invece è quella che manca, c’è molta freddezza, sembra tutto standard… Chi ci mette la passione, è un pezzo avanti».

Il tuo illustre collega Gianni Clerici, fra il serio e il faceto, si lamenta spesso che scrivere di sport non offre i meritati riconoscimenti. Hai mai sofferto un complesso di inferiorità per lo stesso motivo?

«Quando ero giovane mi piaceva viaggiare, la musica e scrivere, tutte cose molto anni ’70. In particolare, come detto, per me il giornalismo era quello degli inviati sui fronti di guerra. Poi, ho scoperto la bellezza di scrivere di sport, per una serie di motivi. Punto primo, ho girato il mondo come ambivo a fare e l’ho potuto fare continuando a vivere nella mia città, vicino alla mia famiglia (Ferrara ha due maschi e una femmina – NdR). Punto secondo, lo sport racconta la vita come nient’altro. Ci sono risvolti umani, morali, politici, economici, tutti da sviscerare e svelare. Punto terzo, quand’ero ragazzo, lo sport era relegato nelle ultime pagine dei giornali, dopo di che tutto il linguaggio è stato preso dallo sport. Non esiste politico che non ricorra alla metafora calcistica; tutti i talk show hanno copiato il format litigioso lanciato da Aldo Biscardi ai tempi del Processo del lunedì; i segretari di partito discorrono come allenatori e le elezioni scimmiottano i campionati; le correnti del Pd oggi si parlano come se fossero il Torino e la Juventus! Punto ultimo, ma decisivo, io ho potuto sempre scrivere quello che mi pareva, nessuno ha mai messo penna nei miei articoli; avessi scritto di politica, forse avrei dovuto scendere a patti».

Inutile spendere parole su quanto è cambiato il mondo del calcio negli ultimi decenni. Nonostante tutto, ti diverti ancora a guardarlo?

«Sì, mi diverto ancora, soprattutto mi emoziono ancora. L’altra sera, a Siviglia, quando in 40.000 si sono alzati in piedi per cantare l’inno spagnolo, stavo per fare altrettanto, tanto era potente l’energia che lo stadio sprigionava in quel momento. Lì scopri che, nonostante tutto, il calcio esprime sentimenti forti, l’appartenenza, il sentirsi parte di una famiglia. E invece noi lo allontaniamo dalle persone in tutti i modi che sappiamo: se non cambiamo registro, non resterà più niente».

Una ricetta per invertire la rotta potrebbe essere proprio la tua leggerezza?

«Faccio solo quello che mi risulta congeniale e che dopo tutto corrisponde allo spirito fiorentino e toscano, che va tenuto vivo e rinnovato, perché – di questo sono convinto – noi siamo diversi, pieni di difetti ma capaci di scherzare e di prendersi in giro. Così, i miei filmati autoprodotti sono nient’altro che un tentativo di alleggerimento. Dopo il successo con “l’incubo viola”, mi ci sono dedicato con più attenzione, ho cominciato a sceneggiarli e, dico la verità, non ho mai avuto tanto successo! La concorrenza è quasi assente e questo aiuta, ma il crinale è sottile fra fare la figura del grullo e invece conservare la serietà per dire con levità cose importanti. Ahimè e per fortuna, se si parla di spunti demenziali, la Fiorentina ne offre a bizzeffe, come si è visto con lo spettacolo “Violapop”: ma, insisto, non è tanto che sono bravo io, è che c’è un potenziale bacino di appassionati e tifosi che è disposto a parlare di sport con un tono ironico e leggero».

La locandina dello spettacolo portato in scena da Ferrara

La locandina dello spettacolo portato in scena da Ferrara

Alla fine di quasi due ore di chiacchiere semiserie, ci lasci con la tua previsione per la Fiorentina prossima ventura?

«È evidente che tifare Fiorentina implica un sacrificio psicologico e mio figlio, che ha otto anni, l’ha già capito! Scherzi a parte, penso che la squadra sia alla vigilia di un cambiamento radicale, dev’essere rifondata in buona parte, perché è invecchiata nei muscoli ma non è cresciuta nel cervello. Il problema è che Vincenzo Montella vorrebbe fare il salto di qualità e la società non glielo può garantire. Il che mi fa essere scettico sulla possibilità che resti a Firenze, ma lui è una persona per bene e non è vero che ha già firmato con un altro club. Nel bilancio generale, occorre anche mettere un bel po’ di sfortuna, abbiamo fondamentalmente giocato senza centravanti e io sono strasicuro che, con Mario Gomez e Pepito Rossi sani, avremmo assistito a un finale diverso. Alla fine, però, bisogna fare anche i conti con la realtà, con una famiglia di imprenditori seri che però non ha intenzione di fare follie. Per cui ci aspetta un periodo tribolato, con molti giocatori da cambiare, il tormentone sul futuro di Montella che a breve partirà e il mercato. Ma siamo abituati e sono ottimista».

Paolo Bruschi