Gianni Clerici, una vita nel “Vaticano del tennis”

 

Wimbledon

Come molti della mia generazione, sono stato spinto su un campo di tennis dalle trascinanti vittorie e inspiegabili sconfitte di Adriano Panatta, che indussero la RAI a puntare le telecamere su uno sport fino ad allora elitario, trasformandolo in un passatempo praticato da milioni di neofiti non meno entusiasti che disadatti. Perfino Paolo Villaggio, che di Panatta divenne stretto amico, sentì il bisogno di immortalare la travolgente passione che aveva colpito gli italiani nel suo celebre “Fantozzi”, tratteggiando il comico e goffo tentativo di partita fra il protagonista della saga e il collega Filini.

Il primo campo di tennis era il cortile del mio condominio. Con un amico, come me folgorato sulla via del Foro Italico, tracciavo con un gesso le righe bianche sul cemento irregolare, senza che questo servisse a immedesimarci nei campioni che si disputavano lo Slam americano, perché allora gli US Open si disputavano sulla terra verde (!) di Forest Hills. Per la rete era sufficiente uno spago da cucina, teso fra l’inferriata di un pianterreno e uno stento alberello che chiudeva una lunga siepe che impietosamente forava tutti i nostri palloni da calcio. Gli scambi, già brevissimi per la nostre assai ridotte capacità, erano frequentemente interrotti dal passaggio delle persone che entravano o uscivano dall’edificio, cui facevamo strada sciogliendo il nodo che assicurava il filo alla ringhiera – il giorno che legammo un uncino a un’estremità della corda, quasi automatizzando l’aggancio e il disimpegno della rete, ci parve di aver compiuto il primo passo verso gli impeccabili court del circuito professionista.

Giocavo con una racchetta in legno, regalatami da uno zio che adoravo, perché a differenza degli altri adulti della cerchia dei parenti, nelle occasioni di incontro parlava con me di questo nuovo sport, che lui stesso praticava con riuscita dignitosa. Mi fu regalata, la racchetta, per la prima comunione e, nel consegnarmela, lo zio attirò la mia attenzione sulla marca, “Fred Perry”: con l’andare delle stagioni e dell’uso, vista la resistenza del mio attrezzo all’usura che logorava irreparabilmente quelli degli amici, capii che il richiamo sul marchio di fabbrica intendeva sottolineare la qualità della racchetta.

Alle sessioni di pratica attiva univo le sedute alla televisione, nelle occasioni in cui la voce dell’algido Guido Oddo si faceva largo nel magro palinsesto della RAI per riferire le vicende dei tornei maggiori e degli incontri di Coppa Davis, nei quali i nostri rappresentanti, eroi minori del circuito ATP, ringalluzzivano fino a confrontarsi da pari a pari con le potenze della racchetta. Oddo si limitava più che altro a declamare il punteggio, astenendosi da disamine tecnico-tattiche che dovevano risultargli oscure come alla maggioranza degli spettatori. Tanto per dire, prima del doppio di Italia-Bulgaria nella Davis del 1973, si accorse che i bulgari Bojdar e Matey Pampoulov erano gemelli praticamente indistinguibili e per facilitarsi il compito in telecronaca chiese loro cortesemente di indossare indumenti diversi, così da poterli immediatamente riconoscere. Solo quando cominciarono a palleggiare, si rese conto che i gemelli erano sì due gocce d’acqua, ma pur sempre assai diversi tennisticamente: uno era destro e l’altro mancino.

All’impeccabile e sostanzialmente sprovveduto Oddo, seguì il viscerale e intemperante Giampiero Galeazzi, che aggiunse colore e sentimento alle cronache, ma ben poca competenza, arrivando a rivaleggiare con il predecessore quanto a topiche clamorose, come quando dichiarò ripetutamente la sua incredulità per la somiglianza fra l’australiana Nicole Bradtke e una giocatrice di nome Nicole Provis che aveva visto in semifinale al Roland Garros nel 1988, fino a che qualcuno gli fece notare che si trattava della stessa atleta, che aveva cambiato cognome dopo il matrimonio.

Mentre il monopolista pubblico si guardava bene dall’educare il telespettatore e anzi lo intrappolava nella più bieca ignoranza tennistica, Telemontecarlo, largamente visibile sul territorio italiano, affidava il racconto delle stesse imprese all’ex tennista Lea Pericoli, dalla cui voce emanava grazia non inferiore alla preparazione e che arrivò sui teleschermi insieme alle racchette in grafite, cui anch’io mi convertii grazie al solito zio, che mi regalò una splendida “Head” per il diploma di maturità. Con i racchettoni apparve infine Gianni Clerici; per un evidente scherzo del destino, vien da dire, considerato che lui li avrebbe volentieri proibiti per arrestare la deriva muscolare e omologante del gioco.

Ma il progresso non si ferma e dalla carta stampata, cioè dalle pagine di “Repubblica”, Clerici approdò a “Tele+”, con l’inseparabile compagno Rino Tommasi. Fu quasi un’antistorica virata a “U”, poiché proprio allora nel calcio si imponevano i primi urlatori a discapito della paludata generazione dei Nando Martellini e Bruno Pizzul. Clerici portò pacatezza e profonda conoscenza degli aspetti tecnici, tattici e soprattutto psicologici del tennis, oltretutto superando il fastidio generato negli aficionados (come lui chiama gli appassionati del suo sport) da un eloquio e da un timbro di voce venato da una sorta di distinzione snob.

In principio, non lo tolleravo, aduso com’ero alla finta confidenza dell’approssimativo Galeazzi. Per ignoranza, stentavo a dare credito alla tanto sbandierata competenza, fino a che lo udii attribuire il pessimo rendimento di John McEnroe in un match di Wimbledon al lancio di palla del servizio. Pensavo che non fosse possibile sbagliare una fase così elementare del gioco e giudicai che Clerici millantasse spiegazioni infondate. Poi, in uno dei suoi tipici scoppi d’ira, SuperMac ruppe il silenzio che regnava sul Centrale inveendo contro se stesso: «Il tuo lancio di palla fa schifo!», urlò il mancino americano.

Mi ricredetti all’istante e caddi in venerazione. Da ex giocatore e poi da studioso del gioco, Clerici osava proporre interpretazioni e contestualmente dava prospettiva storica allo sport, affrancandolo dalla narrazione sempre fissa sul presente che tutto parifica e appiattisce. Nel mezzo delle telecronache di incontri francamente soporiferi, mi capitò di imparare che quel Fred Perry il cui nome era impresso sulla mia prima racchetta era stato l’ultimo inglese a vincere Wimbledon negli anni ’30 e lo sarebbe stato fino al successo di Andy Murray dell’anno scorso; che come capitava a me anche i campioni esitavano o addirittura gettavano al vento partite già vinte per il sopraggiungere del famigerato “braccino”; che c’erano rintracciabili ragioni psicologiche e tecniche se Vitas Gerulaitis poteva accumulare 16 sconfitte e nessuna vittoria contro Bjorn Borg, il quale inaspettatamente soffriva per analoghi motivi l’alterno e talentuoso Panatta. Insomma, si era aperto un mondo di saperi da apprendere.

Non casualmente, anche il mio gioco migliorò, sia per l’accresciuta frequenza delle partite che disputavo, sia per le lezioni che prendevo a distanza dalle telecronache di Clerici – entrambi fattori che concorsero la loro parte a ritardare di qualche mese (anno?) il conseguimento della faticosa laurea.

Per la gioia dei molti aficionados che ha contribuito a svezzare e degli altrettanti estimatori del suo stile soave e pregnante, lo “Scriba”, come gli anglofoni hanno ribattezzato Clerici, ha mandato alle stampe “Wimbledon. Sessant’anni di storia del più importante torneo del mondo” (Mondatori, 2013), una poderosa raccolta delle sue corrispondenze dai Championships londinesi, cui fu ammesso come singolarista nel 1953 (battuto però dallo slavo Stefan Laslo, che stava pianificando una fuga dalle grinfie del neonato regime titoista), e dove sarebbe tornato ogni anno come inviato della “Gazzetta dello sport”, poi del “Giorno” e infine di “Repubblica”.

Oltre mezzo secolo di storie dal “Vaticano del tennis”, come Giorgio Bassani aveva definito l’All England Lawn Tennis and Croquet Club, passano sotto gli occhi del lettore, insieme alle ovvie mutazioni del costume, che si leggono in filigrana, a margine e persino dentro il racconto di centinaia di match, al cui mero resoconto non può essere certo costretto l’estro di Clerici. «Io non riporto, i setter riportano!», si è sempre giustificato Clerici, per cui l’inseparabile compagno di telecronache Rino Tommasi ha coniato l’azzeccatissimo soprannome “Dottor Divago”, a sottolinearne l’incoercibile vocazione alla chiosa fuori contesto, alla deviazione e all’aneddoto, sempre in punta di ironia, grazie a un gergo che la filologa Maria Corti etichettò come “lombardese”, sintetizzando mirabilmente la combinazione di salde radici lariane e di irresistibile attrazione per l’Inghilterra, dove Clerici si sente a casa non solo per ragioni tennistiche, ma soprattutto esistenziali.

E allora, nel leggere del sublime Ken Rosewell e dell’amico Pietrangeli, di Rod Laver e della prima amazzone, Billie Jean King, dei tormenti interiori di Martina Navratilova, di Steffi Graf e Pete Sampras, nonché degli attuali Rafael Nadal e Roger Federer, si resta avvinti a una prosa piana e avvolgente, carica di rimandi e suggestioni, scandita da un uso sapiente della punteggiatura, tanto che sembra piuttosto di essere in ascolto delle memorie a voce alta di un lord albionico, assiso accanto al fuoco nel suo cottage di campagna, con il classico plaid a scacchi sulle gambe, che magnanimamente ci mette a parte dei ricordi di una vita passata ai bordi dei court di tutto il mondo.

Per riprendere in chiusura il filo personale dell’incipit, è semmai il caso di notare che, almeno fino a tutti gli anni ’60, gli scritti di Clerici portavano il segno della necessaria opera di alfabetizzazione dovuta a un popolo di lettori poco o per nulla avvezzo alle consuetudini del tennis, cui lo “Scriba” cerca di iniziarli in uno sforzo incessante di traduzioni e decodifiche, che fatalmente raffrenano lo slancio narrativo del solo giornalista che, insieme all’amico Bud Collins, è stato onorato con l’elezione nella Hall of Fame di Newport, la galleria di glorie che preserva e tramanda la tradizione mondiale del tennis.

Con gli anni ’70, e ancor di più con l’avvento del dualismo fra Borg e McEnroe, i quali campeggiano sulla copertina del libro a testimoniare l’età aurea della diffusione popolare del tennis, la prosa di Clerici si svincola dalle zavorre pedagogiche e assume i tratti pieni di competenza e suggestione che la elevano di molte spanne sopra quella dei colleghi. A dimostrazione del fatto che la cultura non è un’esibizione egocentrica di astrusa erudizione, ma invece la condivisione e la trasmissione di saperi che tengono conto dei destinatari cui sono rivolti.

Gianni Clerici

Gianni Clerici