L’ultima volta che Muhammad Alì si mostrò al grande pubblico fu nel 1996, quando accettò di celebrare il più alto ideale sportivo accendendo il tripode alle Olimpiadi di Atlanta. Con il passo malfermo, le mani tremanti e la bocca serrata dalla malattia, Alì espose il suo corpo minato dal Parkinson allo sguardo compassionevole dell’intero pianeta: nonni e padri spiegarono allora a nipoti e figli che quell’uomo sofferente era stato una volta l’atleta più bello e la lingua più veloce e tagliente del mondo, il pugile leggiadro che aveva riscritto le regole della boxe “volando come una farfalla e pungendo come un’ape”.
L’irruzione dell’allora Cassius Clay sul massimo proscenio della noble art cadde giusto cinquant’anni fa. Il 25 febbraio 1964, sul ring del Convention Centre di Miami, andò in scena l’incontro fra il detentore del titolo, il temibile Sonny Liston che aveva demolito il precedente e rispettato campione Floyd Patterson, e il giovanotto spavaldo di Louisville che aveva intrapreso una folgorante ascesa dopo aver conquistato la medaglia d’oro alle Olimpiadi di Roma. Clay era tuttavia considerato dall’establishment pugilistico niente di più che un pivello linguacciuto, che più che con i pugni si era fatto strada a forza di millanterie e pagliacciate. Di fronte all’imponente massa muscolare di Liston e al suo pugno assassino, Clay poteva far valere solo la sua inedita leggerezza, l’insolita abilità per un peso massimo di danzare e schivare i colpi, girando intorno all’avversario come un bersaglio sfuggevole e imprendibile. La maggior parte dei critici e degli esperti consideravano tuttavia queste doti con evidente fastidio: i pugili di grossa stazza erano tenuti a sfoggiare un atteggiamento minaccioso, ad attaccare vigorosamente e a distruggere il rivale.
Proprio questo era lo stile di Liston, un omone semi-analfabeta, che ignorava persino il giorno della sua nascita. Cresciuto in un’indigente famiglia nera del Sud, da un padre che aveva generato ben 25 figli, Liston fu reclutato da uomini d’affari compromessi con la mafia come gambizzatore e salvato da un triste destino di disadattato dal prete di un carcere che ne aveva scorto le potenzialità durante uno dei suoi soggiorni dietro le sbarre. Liston non aveva molte idee, non si interessava della questione dei diritti civili che invece animava lo spirito ribelle di Clay, ma picchiava come un fabbro, con violenza e crudeltà, dotato com’era di mani enormi che avevano bisogno di guantoni su misura.
Poco sorprendentemente gli organizzatori del match di Miami avevano dovuto accontentarsi di vendere solo la metà dei biglietti disponibili e anche le scommesse languivano, visto che gli allibratori pagavano una vittoria di Clay addirittura sette o anche otto volte la posta. Semplicemente, nessuno si aspettava che Clay potesse resistere più di un round o due.
Anche Liston la pensava così, perciò trascurò gli allenamenti, non evitò di mangiare porcherie, bere alcolici e fare vita da libertino. Alla pesata, che si tenne il mattino dell’incontro, Liston fu confermato nelle sue convinzioni, anzi credette che il suo avversario fosse uscito di senno. Con la voce stridula, gli occhi fuori dalle orbite e rimbalzando a destra e a sinistra, Clay urlava insulti e minacce sconclusionate, cercando di scagliarsi contro il campione mentre era trattenuto ad arte dal suo entourage. Negli anni seguenti, quando tutti si erano abituati ai deliranti isterismi di Clay, i giornalisti li avrebbero salutati con rassegnazione e un sorriso di complicità, ma allora una cosa del genere non si era mai vista e tutti conclusero che il ragazzo era in preda al terrore. Anche lo scrittore Norman Mailer, che sarebbe poi diventato uno dei massimi cantori di Alì, scrisse parole dure contro quella recita: «Se Clay vincesse il campionato dei pesi massimi, significherebbe che qualunque fanfarone a un angolo di strada potrebbe mettersi a dire spacconate ed essere creduto».
Come è raccontato dal premio Pulitzer David Remnick (“Il re del mondo”, Feltrinelli, 1999), l’incontro andò diversamente da come tutti si attendevano. Come aveva annunciato, Clay usò la sua velocità per saltellare incessantemente e schivare il terribile gancio sinistro di Liston; sferrò rapidi jab che incisero tagli profondi nel volto del campione e ne tenne a bada la potenza senza subire danni. Furioso per la vanità dei propri attacchi e per le preziose energie che sprecava nel portarli, Liston cercò di aiutarsi barando come era sempre disposto a fare: il suo secondo Joe Pollino gli frizionò i guantoni con una sostanza urticante che doveva accecare Clay quel tanto da consentire a Liston di riprendere il controllo del match. Nessuno ha mai dimostrato che l’irregolarità sia avvenuta, ma come si vede nei filmati d’epoca, seduto sullo sgabello dopo la fine del quarta ripresa, Clay urla dal dolore e sbatte le palpebre insistentemente; in preda al panico, urla al suo allenatore Angelo Dundee di gettare la spugna.
Furono quelli i minuti decisivi dell’incontro. Dundee frizionò abbondantemente gli occhi di Clay con acqua fresca e frappose il suo corpo fra quello del suo protetto e l’arbitro Barney Felix che, accortosi del trambusto, era andato a chiedere spiegazioni. In qualche modo rinfrancato e spronato a proseguire, Clay si gettò sul ring con la sola idea di correre finché non avesse ripreso a vedere: strizzava gli occhi spasmodicamente e teneva Liston a distanza con il suo superiore allungo, lo abbracciava per impedirgli di colpirlo e indietreggiava ondeggiando sul busto. Il campione si avventò e prese il centro del quadrato, ma non fu letale come avrebbe dovuto, era troppo stanco per sferrare il pugno del KO.
Alla sesta ripresa, Clay ci vedeva di nuovo perfettamente. Fermo sui talloni, per dare più peso ai suoi colpi, ricominciò a martellare Liston che sbuffava come un cavallo, quasi vinto dalla fatica e dalla rabbia. Mise molti punti a suo favore sui taccuini dei giudici e al break tornò baldanzoso al suo angolo: aveva profetizzato che avrebbe battuto Liston all’ottavo round e ora sentiva di poter onorare la promessa.
L’ottavo round però non si disputò, e nemmeno il settimo. Liston si era lasciato andare sullo sgabello, con lo sguardo perso nel vuoto: «Basta», disse ai secondi, i quali pensarono che finalmente le avrebbe suonate a quel ragazzino presuntuoso. Lo massaggiarono alla spalla indolenzita, lo cosparsero di pomata sulle ferite e gli infilarono il paradenti. Liston lo sputò: «Ho detto, basta!». Allora, Pollino capì.
Solo un’altra volta, nella storia dei massimi, un pugile aveva ceduto la corona restando seduto al suono del gong: nel 1919, Jess Willard non aveva risposto alla campana del quarto round contro Jack Dempsey, ma non aveva solo qualche lacerazione e una spalla dolorante; aveva lo zigomo rotto, le costole incrinate e l’udito compromesso, dopo essere finito al tappeto per sette volte nei primi tre minuti.
Clay impazzì dalla gioia e per prima cosa si lanciò contro la stampa, che tanto lo aveva deriso e sottovalutato. Lo si vede trattenuto a stento dai suoi che punta il braccio contro i giornalisti e grida loro di rimangiarsi le parole. Al microfono di Howard Cosell sfogò tutta la sua euforia: «Sono il più grande! Ho sconvolto il mondo! Non ho neanche un segno in faccia e ho rovesciato Sonny Liston, e ho solo ventidue anni! Sono il più grande, l’ho dimostrato al mondo!».
Le parole di Clay non potevano essere più vere. Il giorno dopo, tutti furono informati che, appena laureatosi campione del mondo, Cassius Clay aveva cessato di esistere: svelando al mondo la sua conversione all’Islam, Clay annunciò che da quel momento tutti avrebbero dovuto chiamarlo Muhammad Alì.
Paolo Bruschi