Carcere: diritti, doveri e dignità

 

“Carcere di Sollicciano, si suicida un detenuto. Italiano, 35 anni, si è impiccato. E’ il secondo suicidio  in un penitenziario toscano in pochi giorni”. Così mi è capitato di leggere sul giornale qualche giorno fa. Così, questa frase ha messo in moto nella mia testa diversi pensieri, e diverse domande: Come vengono trattati i detenuti nei nostri istituti penitenziari? In un ambiente del genere si può costruire una relazione umana che possa riprodurre ciò che nella “vita vera”, costituisce la base di una relazione?

Partiamo con qualche numero che aiuta sempre a tracciare un quadro generale. In Italia sono 65.701 i detenuti reclusi (compresi anche quelli in semilibertà) nei 206 istituti di pena del nostro paese, a fronte di una capienza regolamentare di 47.040 posti. La questione del sovraffollamento, per la quale l’Italia è stata condannata dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, non è però l’unico problema. Uno dei più gravi è invece è la diffusa violazione dei diritti e della dignità delle persone detenute. Ed’è qui che mi viene subito alla mente l’art. 27.3 della nostra Costituzione che ci dice che “Le pene non posso consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.”

Quindi proprio secondo la nostra costituzione l’esecuzione della pena tende a far sì che il reo, il quale è venuto meno ad esigenze essenziali della società, si corregga, torni ad una condotta ad esse conforme e non commetta in futuro altri reati. Abbiamo poi l’art. 1 comma 6 dell’Ordinamento Penitenziario che afferma che nei confronti dei condannati “deve essere attuato un trattamento rieducativo che tenda, attraverso i contatti con l’ambiente esterno al reinserimento sociale degli stessi (….)”, questo in rapporto alle specifiche condizioni dei soggetti.

È evidente, che così intesa la rieducazione, non è un risultato garantito, come non lo è mai l’esito di un processo educativo, ma è piuttosto una “scommessa” che la società fa con se stessa su un esito possibile, ma mai sicuro. La rieducazione si traduce, pertanto, in una solidaristica offerta di opportunità , affinché al soggetto sia data la possibilità di un progressivo reinserimento sociale, correggendo la propria anti socialità e adeguando il proprio comportamento alle regole giuridiche.

Peraltro, la rieducazione deve passare da un lato necessariamente dalla preventiva creazione di motivazioni che inducano ai comportamenti socialmente corretti e, dall'altro, essa non può che realizzarsi attraverso strumenti pedagogici tendenti alla responsabilizzazione e consapevolezza della conseguenza delle proprie azioni, pertanto accanto all'ideologia dei diritti del condannato, occorre affermare anche quella dei doveri. Un altro pensiero scaturito dalla lettura del titolo di giornale mi riporta ad un libro letto mesi fa, intitolato “Fine Pena Ora” di Elvio Fassone, magistrato. Non è un romanzo d’invenzione, ma una storia vera, una corrispondenza durata 26 anni tra un ergastolano ed il suo giudice.

Nemmeno tra amanti, ammette l’autore, è pensabile uno scambio di lettere così lungo. Nel 1985 a Torino si celebra un maxi processo alla mafia catanese; il processo dura quasi due anni, tra i condannati all'ergastolo Salvatore,uno dei capi, a dispetto della sua giovane età, con il quale il Presidente della Corte d’Assise ha stabilito un rapporto di rispetto e quasi (la parola non sembri inappropriata) di fiducia. Il giorno dopo la sentenza il giudice gli scrive d’impulso e gli manda un libro, anche perché una frase detta da Salvatore all'inizio del processo, gli rimarrà  impressa nella mente per sempre “Se suo figlio nasceva dove sono nato io, adesso era lui in gabbia; e se io nascevo dov'è nato suo figlio, magari ora facevo l’avvocato ed ero pure bravo”.

Non è pentimento per la condanna inflitta,ma un gesto di umanità per non abbandonare un uomo che dovrà passare in carcere il resto della sua vita. La legge è stata applicata, ma questo non impedisce al giudice di interrogarsi sul senso della pena. Questo libro non è un saggio sulle carceri , non enuncia teorie, è un’opera che scuote e commuove che chiede come conciliare la domanda di sicurezza sociale e la detenzione a vita con il dettato costituzionale del valore riabilitativo della pena, senza dimenticare l’attenzione al percorso umano di ogni condannato. Vorrei concludere questo articolo con l’ultima frase del libro di Fassone, una frase che dovrebbe farci riflettere: “ Il carcere è per castigare certi gesti, ma poi punisce anche parti che forse la persona non sapeva di avere, parti innocenti che magari si scoprono solo quando vengono ammutolite a forza, e recise. Perché il carcere è pena per gesti che non andavano compiuti: ma la persona non è mai tutta un gesto che compie, buono o cattivo che sia.”

 

Giulia Meozzi

Tutte le notizie di GoBlog