Mark Edmondson, l'ultimo "cenerentolo"

Il baffuto tennista vinse gli Australian Open quando era classificato al n. 212 del ranking mondiale, quarant'anni fa. Nessun altro "aussie" ha vinto il torneo di casa da allora


I tennisti hanno cominciato la loro annuale migrazione verso l’emisfero australe, trasferendosi intanto in Asia per le prime gare dell’anno. Da lì approderanno in Oceania, i cui soli quattro tornei del calendario ATP si giocano in gennaio. L’esodo sarà completo fra due settimane, quando apriranno i battenti gli Australian Open e tutti i giocatori del globo si ritroveranno nei modernissimi impianti di Melbourne Park.

La Rod Laver Arena, dove si gioca la finale degli Australian Open, ha il tetto mobile

La Rod Laver Arena, dove si gioca la finale degli Australian Open, ha il tetto mobile

Non è sempre stato così. Dalla metà degli anni ’70 e per buona parte del decennio successivo del secolo passato, la tappa più meridionale degli Slam era largamente snobbata. La collocazione subito dopo Natale e il lungo viaggio fino a “là sotto” scoraggiavano molti competitori; né il misero montepremi, meno della metà di quello di Wimbledon e poco più di un terzo di quanto si poteva guadagnare agli US Open o al Roland Garros, costituiva un’attrazione sufficiente. Gli iscritti pertanto erano per la maggior parte eroi di casa. Nel 1976, nessuno dei primi 5 giocatori del ranking si sobbarcò la trasferta fino al Tennis Club di Kooyong, sui cui prati si sfidarono solo 64 giocatori. Di questi, ben 39 erano australiani, compresa la prima testa di serie, il sublime e ormai attempato Ken Rosewall, unico dei partecipanti incluso nella top ten mondiale. Date le circostanze, non sorprende che il trionfatore alla fine risultasse un enfant du pays, meno ovvio è che non si trattasse del citato Rosewall o degli invecchiati ma ancora gagliardi John Newcombe o Tony Roche. A prevalere fu al contrario un tennista part-time, il ventunenne baffuto e massiccio Mark Edmondson, che uscì dall’anonimato della duecento-dodicesima posizione in classifica per issarsi fino alla finale e al trofeo del vincitore, stabilendo il primato ancora imbattuto del più scarso – almeno secondo la classifica del computer – a intestarsi la vittoria in un major.

Laver, Newcombe e Rosewall

Laver, Newcombe e Rosewall

Edmondson si considerava un professionista, ma il conto in banca lo smentiva impietosamente. Le sue magre finanze, non alimentate adeguatamente dai benefici economici dei successi, lo costringevano spesso a lavoretti extra per racimolare il denaro necessario a girare per il circuito. Quando le molte defezioni di più illustri colleghi gli consentirono di iscriversi allo Slam australiano, aveva da poco accettato un impiego come bidello nell’ospedale dove la sorella lavorava come infermiera. Con sua stessa meraviglia, inanellò una vittoria dopo l’altra e passò dalle partite sui negletti campi periferici, dove gli unici spettatori erano quelli che portavano il cane a passeggio, al centrale. Lì, per la semifinale, lo attendeva proprio Rosewall, la leggenda vivente, secondo nella considerazione dei competenti connazionali al solo, inarrivabile Rod Laver. Rosewall aveva vinto ben otto prove dello Slam, la prima nel 1953, quando ancora Edmondson non era venuto al mondo. L’inatteso semifinalista puntava semplicemente a evitare una sconfitta imbarazzante, invece, in un pomeriggio di caldo soffocante, spinto da un servizio più devastante che mai, si impose in quattro set.

Alla fine del match, poiché non poteva permettersi una stanza nei lussuosi hotel che ospitavano i più famosi e danarosi colleghi, per tornare alla casa dell’amico che lo ospitava, prese il bus insieme a molti tifosi. Uno di loro lo apostrofò: «Bel lavoro Mark, ma non credo che avrai molte chance di battere Newky domani». Newky era ovviamente Newcombe, il campione in carica, che l’anno prima aveva detronizzato l’astro nascente Jimmy Connors. A parte i baffoni a manubrio, il novellino e il campione avevano ben poco in comune: John era titolare di sette titoli maggiori, vantava svariate settimane di permanenza al vertice della classifica e frequentava gli esclusivi circoli mondani riservati alle stelle dello sport. Giusto nel settembre di quell’anno, dopo una serata in un bar di Kennebunkport, nel Maine, sarebbe stato nell’auto con George W. Bush, quando il futuro presidente degli Stati Uniti, all’epoca figlio trentenne del capo della CIA, fu arrestato dalla polizia per guida in stato di ebbrezza.

Il 4 gennaio 1976, la finale si aprì con il faticoso successo di Newcombe nel tie-break del primo set. Ai più parve l’inizio della fine per il sorprendente outsider, che invece si scosse e pareggiò con un autorevole 6-3. Funestata da un’improvvisa tempesta di vento, che costrinse i giudici a sospendere le ostilità per mezz’ora, la terza frazione fu quella decisiva: ancorati ai rispettivi servizi, i due procedettero spalla a spalla fino al sei pari, ma stavolta il gioco decisivo andò a Edmondson. Sfiancato dal caldo allucinante, che impose il ricovero per disidratazione a un centinaio di spettatori, e dalla disinvoltura con cui il più giovane avversario sopportava le avverse condizioni climatiche, Newcombe cedette di schianto nel quarto set e non gli rimase che complimentarsi con il rivale.

Edmondson si china per raccogliere il trofeo

Edmondson si china per raccogliere il trofeo

Poco avvezzo alle premiazioni, Edmondson lasciò cadere la coppa appena consegnatagli, ma tenne ben stretto l’assegno che gli avrebbe garantito almeno un altro anno all’inseguimento del suo sogno di diventare un professionista a tutti gli effetti. Continuò e vinse altri cinque tornei in singolo e ben 34 in doppio, di cui quattro proprio all’Open di Melbourne. Nel 1982, raggiunse la quindicesima posizione nella graduatoria ATP, dopo la semifinale perduta contro Connors a Wimbledon. «La sola cosa che mi secca è quanto guadagnano oggi», ha dichiarato di recente, con riferimento all’attuale montepremi astronomico, che garantirà a tutti i perdenti al primo turno dell’edizione di quest’anno tre volte quello che come vincitore spettò a Edmondson, che tuttavia può vantarsi ancora oggi di esser stato il protagonista dell’ultimo sussulto dell’età aurea del tennis australiano.

Paolo Bruschi