George Best, un sessantottino naturale

Dieci anni fa, ucciso dall'alcolismo, se ne andava l'attaccante nord-irlandese, la prima pop-star del calcio internazionale


Best

Nell’imminenza del 25 novembre, i bookmaker britannici avrebbero senz’altro pagato un premio infimo a chi avesse voluto scommettere contro la probabilità di una pioggia di articoli rievocativi dal titolo “Dieci anni senza George Best”. Il cedimento a una delle tante manifestazioni della “sindrome da espressione a corso forzoso”, che a intervalli più o meno regolari coglie soprattutto i giornali sportivi, sarebbe uno sgarbo postumo al campione nord-irlandese, che in vita non ha mai lesinato a cronisti e reporter spunti per stare alla larga da stereotipi e luoghi comuni. Arresosi nel 2005, ad appena 59 anni, alle conseguenze di una vita sregolata e sopra le righe, segnata dalla rincorsa al gol, al sesso e alla bottiglia - «Ho speso un sacco di soldi per alcool, donne e macchine veloci. Il resto l’ho sperperato», disse una volta con splendido candore -, l’estrosissimo calciatore che inaugurò la mistica della maglia n. 7 del Manchester United (poi indossata da Brian Robson, Eric Cantona, David Beckham e Cristiano Ronaldo) è stato definito in molti modi. Genio, testa matta, playboy, gran dissipatore: Best è stato tutto questo e molto altro. Non è mai stato banale, però, né prevedibile, se non nella fine tristemente annunciata dall’inestinguibile vocazione all’autodistruzione (ereditata dalla madre uccisa dallo stesso vizio), che lo rigettò nel baratro dell’alcolismo pur dopo aver beneficiato di un trapianto di fegato.

George Best fotografato poco prima di morire

George Best fotografato poco prima di morire

Sul letto di morte, non esitò a lasciare che i fotografi ritraessero la sua maschera sofferente, in segno di monito per i troppi che sottostanno alla tirannide del bere, e l’allora premier Tony Blair si mosse a commozione, definendolo uno dei migliori giocatori mai prodotti dal Regno Unito. Era un’ala, George Best, baciato dalla classe e dall’eleganza. Dribblomane impenitente, pervaso da un’insopprimibile vena anarchica e guascona, non di rado sacrificava un gol a un virtuosismo fine a se stesso. Nel 1976, già in pieno decadimento fisico e tecnico, fu convocato per la partita fra l’Irlanda del Nord e l’Olanda del sommo Johan Cruijff. I giornalisti gli chiesero cosa ne pensasse della stella olandese, se lo ritenesse superiore a lui. Per tutta risposta, dopo soli cinque minuti di gara, Best arpionò un pallone vagante sulla sinistra, scorse Cruijff sull’altro versante e, invece di dirigersi verso l’area, puntò l’illustre avversario e lo ridicolizzò con un tunnel irridente, sollevando il pugno in aria come se avesse fatto gol.

Nato a Belfast nell’immediato dopoguerra, come atleta ebbe una breve e folgorante parabola. Da quindicenne gracile e spaurito arrivò all’Old Trafford e vi esordì a 17 anni sotto la guida del "santone" Matt Busby; a 20 fu campione d’Inghilterra, a 22 guidò il Manchester alla prima Coppa dei Campioni mai conquistata da una squadra inglese, intestandosi un ben meritato Pallone d’oro. Non vinse altro, se si escludono le grazie di innumerevoli stelle del cinema e reginette di bellezza: «Sarebbe stata dura dover scegliere fra un gol da trenta metri contro il Liverpool e andare a letto con Miss Mondo: fortunatamente, ho fatto entrambe le cose», scrisse nella sua biografia. A soli 28 anni permise che i suoi demoni prendessero il definitivo sopravvento: fu cacciato dallo United, perché ormai trascorreva più tempo al pub o al night che sul campo. Si imbarcò in un’esistenza nomade alla ricerca di contratti ovunque glieli proponessero: Irlanda, Stati Uniti, Scozia, Australia videro un giocatore ben distante dal suo apogeo, ma un uomo pronto a battere tutti i record come donnaiolo e bevitore instancabile.

Con la svedese Mary Stävin, miss Mondo nel 1977

Con la svedese Mary Stävin, miss Mondo nel 1977

L’odierna resistenza del mito dipende da una ben omogeneizzata miscela dei suoi successi sul campo di gioco e del suo stile di vita straordinariamente anticonformista. Asceso alla notorietà internazionale mentre il mondo si preparava alla più radicale e diffusa contestazione sociale, culturale e politica mai sperimentata in epoca moderna, Best incarnava in modo naturale e inconsapevole l’impetuoso flusso di energie che attraversava gli spiriti della gioventù degli anni ’60. Tanto bastava ad allarmare il benpensante ambiente calcistico di allora, per i cui canoni gli eroi domenicali erano bravi ragazzi, magari di umile estrazione, dediti alla famiglia e al consolidato e innocuo rituale di allenamenti, ritiri, quieti salotti domestici e vacanze rigeneranti in qualche località balneare non troppo tentatrice. Best sovvertì questo tranquillizzante quadretto, nello stesso momento in cui i capelloni minavano dalle fondamenta il tradizionale ordine morale e comportamentale. Per il massimo effetto dirompente, si trovò a farlo dall’Inghilterra, uno dei massimi centri di propagazione del vento rivoluzionario e, grazie a lui, popstar planetaria al pari di John Lennon, Mick Jagger e Twiggy, la grigia e declinante Manchester tenne testa al fascino della swinging London e del Mersey sound di Liverpool. Inevitabilmente ribattezzato il “quinto beatle”, soprannome che molti non intendevano come un complimento, cavalcò e alimentò il tumulto che scuoteva la rigida società pre-sessantottina e per una fortuita coincidenza raggiunse il vertice della traiettoria agonistica proprio nel 1968. Il 29 maggio, mentre a Parigi e in Francia imperversava un gigantesco sciopero, le cui ardite parole d’ordine avevano sopravanzato la già ambiziosa piattaforma sindacale, i Red Devils scesero in campo a Wembley agli ordini di Concetto Lo Bello per contendere al Benfica di Eusebio il massimo trofeo continentale: il gol di Bobby Charlton fu pareggiato in chiusura dai portoghesi e toccò proprio a Best decidere l’incontro con una rete nei tempi supplementari, dopo aver scartato anche il portiere.

Best con il Pallone d'oro, osservato dall'allenatore dei "Diavoli rossi" Matt Busby

Best con il Pallone d'oro, osservato dall'allenatore dei "Diavoli rossi" Matt Busby

Quell’anno sarebbe proseguito con gli assassini di Martin Luther King e Bob Kennedy, con la Primavera di Praga soffocata nel sangue dai tank dell’Armata Rossa. Anche lo sport non sarebbe più stato lo stesso. Nel male e nel bene, avrebbe cessato di rappresentarsi come la roccaforte dell’ordine, territorio implicitamente conservatore e impermeabile ai venti della storia. Il massacro degli studenti nella piazza delle Tre Culture introdusse le Olimpiadi di Città del Messico, dove Tommie Smith e John Carlos levarono il pugno guantato di nero sul podio dei 200 metri in appoggio alla lotta degli afroamericani per i diritti civili e la ginnasta cecoslovacca Věra Čáslavská espresse la sua silente opposizione all’invasione sovietica chinando il capo all’esecuzione dell’inno dell’Urss. In carriera, Best non fu mai protagonista di atti o proteste così vistose. Si deve allora concludere che la persistenza della sua icona va piuttosto imputata alla sua mera figura, ai lunghi capelli scuri, alle folte basette, allo sguardo magnetico e alla personalità genuinamente libertaria. A quelle caratteristiche che ne facevano un sessantottino naturale e involontario, e proprio perciò tanto più rappresentativo di un movimento che incise radicalmente sulle relazioni, sui costumi, sui modi di pensare e di vestire, sulla musica e sul cinema, sulla sessualità e sulle relazioni fra uomo e donna, vale a dire sugli ambiti che sono stati il lascito più duraturo di quella stagione. Quanto al calciatore, rimase intrappolato nel mito, come ebbe a sintetizzare icasticamente lo stesso Best: «Se fossi nato brutto, non avreste mai sentito parlare di Pelé!».

Paolo Bruschi