Accoltellata sul campo di tennis da uno squilibrato, la campionessa slava tornò al gioco il 29 luglio 1995, dopo oltre due anni di incubi
Può una partita di tennis, per giunta non competitiva, essere equiparata a una rinascita civile e spirituale?
Sì, se il tennis è stato il tuo sport fin dall’età di cinque anni, quando colpivi la pallina su cui tuo padre soleva imprimere i ritratti di Topolino, Pippo e Paperino per alimentare la tua passione di bambina; sì, se la tua famiglia ha creduto in te al punto da trasferirsi negli Stati Uniti, da un paese oltre la Cortina di Ferro, solo per sviluppare il tuo talento; sì, se non ancora maggiorenne hai conquistato il primo posto nella classifica mondiale e ben otto major dei nove a cui hai preso parte; sì, soprattutto, se questa bella favola è interrotta da uno squilibrato che esce dal pubblico e ti pugnala alle spalle mentre siedi a bordo campo in attesa della ripresa del gioco.
Monica Seles, nata a Novi Sad il 2 dicembre 1973 da una famiglia di origine ungherese, nella sua prorompente ascesa sospinta dagli inediti rovesci e dritti a due mani, aveva scalzato dal trono l’apparentemente imbattibile Steffi Graf e fu proprio un ossessionato tifoso di questa, Günther Parche, a pugnalare la serba il 30 aprile 1993, durante i quarti di finale del torneo di Amburgo. Al processo, l’aggressore affermò di aver agito per restaurare il primato della sua beniamina. Dichiarato psicologicamente infermo, fu condannato a due anni con la condizionale e subito rimesso in libertà.
Benché infertale con un coltello di 23 cm, la ferita sulla schiena di Monica guarì in poche settimane, ma lo shock emotivo lasciò lesioni mentali ben più ardue da rimarginare. Ha ricordato la donna nella sua biografia: «Mi svegliavo di notte in un bagno di sudore, con mia madre atterrita dalle mie grida, e le chiedevo di abbracciarmi come si fa con i bambini». A partire dalla fine del 1993, presero a susseguirsi gli annunci sulla stampa di un suo imminente ritorno, senza che ai messaggi facesse riscontro l’effettivo rientro sul circuito. Gli sponsor l’abbandonarono e così le colleghe, che votarono contro la proposta di conservarle il posto di n. 1 durante il periodo di convalescenza. Palleggiare con il fratello Zóltan sul campo di casa era un conto, giocare negli stadi assiepati non le riusciva proprio: quelle moltitudini di tifosi adoranti si erano trasformate, agli occhi di Monica, in un mostro dai mille tentacoli minacciosi. Pareva ormai persa per il gioco.
Invece, nel febbraio 1995, Martina Navratilova, già ritiratasi dalle competizioni, si fece avanti e le chiese il permesso di farle visita nella sua casa in Florida. Ottenuto il benestare, si presentò con una racchetta e suggerì di fare qualche scambio. Le disse che tutti sentivano la sua mancanza e la implorò di tornare. Dopo quei palleggi, si tolse un prezioso braccialetto dal polso e lo porse Monica, che si ritrasse: «Me lo potrai restituire quando tornerai a giocare», concluse dolcemente Martina.
Poche altre stelle dello sport oltre a Navratilova potevano comprendere lo stato d’animo della tennista slava. Alla metà degli anni ’70, Navratilova aveva chiesto asilo in America, fuggendo dalla Cecoslovacchia, un altro paese dell’allora blocco comunista. Anche lei aveva sperimentato l’amore e poi l’astio sguaiato delle folle, che la insultavano per il corpo reso mascolino dal potenziamento muscolare. Le tifavano aspramente contro soprattutto quando incontrava la sempiterna rivale Chris Evert, prototipo della delicata e amabile fanciulla della porta accanto, mentre in realtà era Martina quella fragilizzata dalla dichiarata omosessualità.
La comprensione e l’incoraggiamento di Martina erano proprio quello di cui Seles aveva bisogno per battere la depressione e i fantasmi che la tormentavano. Fu così che il 29 luglio 1995, ad Atlantic City, in un’arena più spesso testimone di match di pugilato e concorsi di bellezza, le due nuove amiche giocarono una partita d’esibizione, che fu il ritorno pubblico di Monica Seles al tennis. Ormai naturalizzata americana, la tennista serba si mostrò con un volto più maturo. La spensieratezza adolescenziale aveva abbandonato la sua espressione, ma i vibrati colpi bimani da fondo campo, accompagnati dal tradizionale grugnito che una volta le era costato un’ammonizione a Wimbledon, sembravano quelli dei giorni migliori. La 38enne Martina si prestò di buon grado al ruolo di sparring-partner e cedette soavemente per 6-3 6-2, nella fresca e riposante aria condizionata del Convention Center. Alla fine della partita, le due giocatrici si abbracciarono alla rete e la vincitrice riconsegnò il braccialetto alla sconfitta.
Il mese successivo, Seles si iscrisse agli US Open, omaggiata della prima testa di serie, ex-aequo con Steffi Graf. Immancabilmente, le due si fronteggiarono in finale e fu la tedesca a vincere in tre set, dopo che una controversa chiamata arbitrale l’aveva avvantaggiata nel tie-break della prima partita. Seles tornò al successo in uno Slam ai successivi Open di Melbourne, nel gennaio 1996, battendo all’ultimo match l’altra tedesca Anke Huber. Sarebbe però stato l’unico major dopo l’accoltellamento.
Il suo rivoluzionario gioco da fondo campo e la singolare aggressività dei colpi portati a “quattro mani” smisero di essere sostenuti dalla necessaria solidità mentale e dall’esplosività fisica. La mente non era del tutto sgombra dagli ossessivi rovelli, che continuarono a manifestarsi sotto forma di un parossistico attaccamento al cibo, che in breve appesantì la silhouette della tennista, come impietosamente sottolinearono i tabloid di tutto il mondo. Solo al termine della carriera, riconquistato il pieno equilibrio interiore, Seles smise di mangiare in modo compulsivo, riguadagnando l’aspetto snello e atletico che aveva da giovane.
Nel frattempo, Steffi Graf aveva potuto tornare a dominare in lungo e in largo. La tedesca una volta dichiarò che non era facile convivere con la consapevolezza di esser risalita al vertice della classifica a causa dell’aggressione subita da Seles, tuttavia poté ritirarsi con un bottino di ben 22 titoli dello Slam. Secondo i numeri, Günther Parche aveva raggiunto il suo obiettivo.
Paolo Bruschi