WNBA, dalle cestiste americane arrivano esempi di tolleranza

Il campionato americano è all'avanguardia nelle politiche di inclusione sessuale, come dimostrano le storie di molte atlete di punta


Ora che il figliol prodigo LeBron James non è riuscito a portare i Cleveland Cavaliers al primo titolo della loro storia e a festeggiare sono i Golden State Warriors dell’astro nascente Stephen Curry, il testimone della pallacanestro americana passa dagli uomini, che hanno chiuso l’anno con le NBA Finals, alle donne, che hanno invece inaugurato la stagione regolare del diciannovesimo campionato della Women’s National Basketball Association (WNBA). Se i maschi giocano da novembre a giugno, le femmine infatti completano il calendario occupando la scena da giugno a ottobre: sei squadre dell’Est e sei squadre dell’Ovest si daranno battaglia per 34 partite prima del rush conclusivo dei playoff, che il prossimo autunno laureeranno le eredi delle Phoenix Mercury, vincitrici dell’ultimo torneo contro le Chicago Sky.

Se il campionato di basket dei professionisti statunitensi è ormai un marchio globale e una formidabile macchina per far soldi, che diffonde all’estero l’american way of life e da ogni angolo del pianeta attira giocatori ansiosi di misurarsi sul palcoscenico più difficile e spettacolare che si conosca, la Lega femminile, nata in effetti per iniziativa degli uomini della NBA, non può vantare altrettanta visibilità, né muove lo stesso giro di affari, tanto che molte delle sue stelle emigrano all’estero per integrare le proprie entrate. Mentre i migliori giocatori maschi si assicurano la stabilità finanziaria per il resto della vita nel momento stesso in cui esordiscono su un parquet NBA, le donne di maggior talento, durante i mesi di stop del campionato a stelle e strisce, giocano in Cina, Russia, Turchia o Spagna, dove possono spuntare contratti da mezzo milione di dollari, dieci volte tanto il salario massimo della WNBA.

Griner con la maglia delle Zhejiang Far East

Griner con la maglia delle Zhejiang Far East

Benché il doppio lavoro collochi le cestiste su un piano di parità con milioni di coetanee che faticosamente sbarcano il lunario fra impieghi multipli e precari, suscitando al contempo ironie e solidarietà, la WNBA pare essere assurta a una crescente popolarità per un altro motivo, ossia per le abitudini e le politiche di inclusione, tolleranza e accettazione di cui sono protagoniste le atlete più in vista, a cominciare da Brittney Griner, principale responsabile del recente dominio di Phoenix, titolare essa stessa di un lucroso ingaggio part-time nel campionato cinese, ma soprattutto gay dichiarata. Lo rivelò con disinvolta nonchalance a Sports Illustrated, durante un’intervista che presentava agli appassionati la nuova stella uscita dal circuito universitario, la quale non dimenticava, nel momento in cui la vita le sorrideva, quanto era stata dura sopportare il bullismo dei compagni per il colore della pelle, per l’essere una spilungona fuori misura con i suoi 203 cm e per la sua sessualità. Un paio di settimane dopo, la stessa rivista mise in copertina la storia di Jason Collins, il centro dei Boston Celtics: Collins svelava di essere omosessuale, diventando il primo uomo nel panorama degli sport professionistici a fare coming out. La sortita generò un immediato diluvio di dichiarazioni di solidarietà dal commissioner della Lega, David Stern, e da parte di illustri colleghi come Kobe Bryant e Steve Nash. Tanto entusiastiche e tempestive da apparire di maniera, tali enunciazioni d’appoggio segnalarono in realtà la persistenza di un sostrato culturale machista e omofobo. Per contrasto, l’intervista di Griner originò a malapena un’alzata di spalle fra le sue pari. Elena Delle Donne, altra stella di prima grandezza, si stupì dello stupore creato dalla rivelazione di Collins e auspicò che i maschi adottassero la stessa positiva e accogliente attitudine delle donne.

Il numero di Sports Illustrated dedicato al coming out di Collins

Il numero di Sports Illustrated dedicato al coming out di Collins

La tolleranza dimostrata dalle cestiste americane è tuttavia il risultato di un’apertura che viene da lontano, almeno dagli anni ’70, quando due campionesse di fama internazionale come Billie Jean King e Martina Navratilova rivelarono la propria omosessualità all’apice delle loro carriere. D’altra parte, dichiararsi gay per le donne non è stato mai facile, né lo è oggi (si veda alla voce Felice Belloli, ottuso presidente della Lega Calcio Dilettanti), in virtù dell’inveterato stereotipo maschilista per cui una donna che pratica sport non è abbastanza aggraziata e quindi è, verosimilmente, omosessuale - il che, come corollario, riafferma il pregiudizio duro a morire per il quale gli sport femminili sono una mera versione ridotta di quelli maschili.

Swoopes con la maglia delle Houston Comets

Swoopes con la maglia delle Houston Comets

Prima di Griner, con modalità più eclatanti, era stata Sheryl Swoopes ad annunciare pubblicamente la propria omosessualità nell’ottobre 2005. Già vincitrice di tre ori olimpici e di svariati titoli con le Houston Comets, nonché di diversi riconoscimenti individuali come miglior giocatrice della WNBA, i fan la consideravano la “Michael Jordan in gonnella”. Altrettanto dominante di His Airness, fu la Nike a riconoscere implicitamente la fondatezza del paragone, facendone la prima donna cui intitolare un paio di scarpe, battezzate appunto Air Swoopes. Quando Swoopes fece sapere di essere gay divenne senza dubbio l’atleta più in vista degli sport di squadra a rivelarsi e lasciò i vertici della Lega incerti sul da farsi. Oggi la WNBA ha apertamente sposato una politica di marketing che promuove la piena accettazione delle diversità sessuali, tanto da aver sensibilmente allargato il proprio seguito fra le comunità omosessuali del paese, ma dieci anni fa la strada da intraprendere non era ancora chiara. Anzi, nel 1997, proprio la maternità di Swoopes fu l’inaugurale campagna pubblicitaria del primo campionato femminile. Con tutta evidenza, nel tentativo di allargare la propria base di sostenitori e implicitamente riconoscendo l’odioso radicamento del pregiudizio omofobico che colpisce gli sport femminili, la WNBA intendeva verniciare di eterosessualità la propria immagine. Più nobilmente si trattava anche di spezzare l’opposta discriminazione che sovente minaccia le libere scelte procreative delle atlete, né più né meno di come avviene in molti altri contesti lavorativi – basti pensare che, soprattutto a livello universitario, alle donne sono spesso imposti orari di coprifuoco cui gli uomini non devono sottostare; che le ragazze firmano clausole vessatorie che stabiliscono la sospensione delle borse di studio in caso di gravidanza, per non parlare degli allenatori che impongono l’aborto come condizione per il mantenimento dell’aiuto economico. Swoopes partorì il piccolo Jordan, così chiamato in onore di sua maestà Air Michael, e ricevette pieno supporto dalla squadra. Parve naturale consentirle di riaggregarsi alle compagne appena sei settimane dopo il parto, continuando l’allattamento del figlio a bordo campo durante una pausa degli allenamenti, negli spogliatoi, o sugli aerei durante le trasferte. Lo stato psicofisico idoneo all’esercizio atletico fu riguadagnato così in fretta che Sheryl fu ancora capace di disputare l’ultimo terzo della stagione, guidando il suo quintetto alla conquista del primo titolo WNBA.

Il matrimonio, già naufragato, fra Griner e Johnson

Il matrimonio, già naufragato, fra Griner e Johnson

La strada per assegnare pieno diritto di cittadinanza a ogni preferenza sessuale nello sport è ancora lunga e nuove sfide si impongono, come dimostrano le recenti vicissitudini della citata Brittney Griner e della compagna Glory Johnson, appena convolate a nozze dopo un violento alterco domestico che aveva condotto all’arresto di entrambe e già in procinto di divorziare, per la maternità non condivisa annunciata dalla seconda: per la pur evoluta WNBA non sarà semplice gestire queste “strane” scene da un matrimonio.

 

Paolo Bruschi