
Presidente Napolitano, lei ha lasciato il Quirinale cinque mesi fa. Ora, vedendolo un po' più da fuori, che Paese ha trovato?
Non sono stato fuori dal Paese per nove anni, ci sono stato molto dentro, e ho cercato di seguirlo. Non solo attraverso i canali istituzionali e l'esercizio dei poteri che la Costituzione mi conferiva, ma attraverso il massimo contatto possibile con tutte le espressioni vive della società. Quindi, dopo aver lasciato il Quirinale ho ritrovato il Paese che avevo seguito. Ed è un Paese con dei problemi molto seri, perché si sono via via accavallati, fin quasi ad esplodere. Problemi che ci siamo trascinati dietro per alcuni decenni a causa della difficoltà di padroneggiarli. Si tratta di nodi ineludibili e oggi si tratta i nodi ineludibili.
Negli ultimi anni di avvitamento del sistema economico italiano e globale è cambiato anche il ruolo del sindacato. Come?
Il sindacato ha sofferto moltissimo delle conseguenze della crisi globale, della crisi dell'eurozona, e della crisi italiana. Ha sofferto molto perché il prezzo maggiore di questa crisi lo ha pagato il mondo del lavoro, e non è stato facile per i sindacati difenderlo. Uso questo verbo perché naturalmente è compito del sindacato difendere gli interessi dei lavoratori, e difendere il lavoro in quanto tale. L'espressione 'posti di lavoro' può non piacere, può apparire superata. Ma nel difendere chi ha un lavoro, lo ha perso o rischia di perderlo, lo cerca e non lo trova, credo che il sindacato abbia finito per essere un po' schiacciato sulla difensiva. E questo a mio avviso è un punto serio di riflessione.
Difensiva vuol dire difesa del proprio ruolo istituzionale o difesa della classe di lavoratori che il sindacato rappresenta? Ci sono, ad esempio, milioni di lavoratori precari in Italia che il sindacato non ha mai rappresentato.
Questa naturalmente è una grossissima questione. Ci si è sempre chiesti in che misura il sindacato potesse non solo rappresentare i lavoratori occupati, ma anche i senza lavoro e gli aspiranti al lavoro. Direi che una ricetta non è stata ancora trovata. La chiave può essere soltanto nella capacità del sindacato di affrontare, dal suo punto di vista, i problemi generali dello sviluppo dell'economia e della società. La soluzione di questi problemi conduce anche a dare risposte a chi non ha lavoro, a chi lo ha perso, o a chi lo cerca.
Dal punto di vista politico, c'è un ruolo per il sindacato? Per esempio, la scorsa settimana il leader della Fiom ha presentato qualcosa che non è propriamente sindacale. La Coalizione sociale di Landini è ancora a metà strada. Non sappiamo cosa sia, però dimostra la tendenza del sindacato ad occuparsi maggiormente di politica.
Non intendo, sia chiaro, pronunciarmi su fenomeni politici di attualità che non rientrano né nei miei interessi, né nel mio profilo attuale. Ma il sindacato italiano ha una grande tradizione di impegno e di ruolo effettivo sui problemi generali dello sviluppo dell'economia e della società, che può essere definito un ruolo politico in senso lato. In questo accezione, il sindacato diventa un soggetto politico, non in termini strettamente partitici o in sostituzione dei partiti. E' qualcosa di molto tipico della storia del sindacalismo italiano.
Qualche giorno fa ho ricevuto la visita del Presidente Lula, che mi raccontava della sua ammirazione, da vecchio sindacalista metallurgico brasiliano, per l'esperienza italiana. Mi ha parlato di sindacalisti italiani che lui ben ricorda, persone con cui ha avuto rapporti nel campo dei metalmeccanici, da Trentin a Carniti.
Senza dubbio lo seduceva molto questa capacità del sindacato non solo di assolvere il suo compito essenziale, e certamente insostituibile, di contrattare le condizioni di lavoro retributive e di presenza nell'azienda dei lavoratori, ma anche la capacità di porsi al di sopra di una visione di classe in senso ideologico.
Credo che questo sia stato decisivo. Poi, io posso parlare da un punto di vista che certamente non pretende di essere rappresentativo della storia di tutti i sindacati, e nemmeno di tutte e tre le grandi confederazioni del lavoro, perché da giovane ho seguito molto soprattutto le vicende della Cgil. Assistetti alla conferenza che si tenne a Roma al teatro delle Arti per lanciare il famoso Piano del Lavoro della Cgil di Di Vittorio.
Quel momento fu importante, parliamo di un sindacato che usciva dalla terribile esperienza della guerra e che si trovava di fronte ad un paese largamente distrutto, però ci fu il grande discorso del segretario della Cgil. Poi Di Vittorio lasciò la parola agli economisti e ai tecnici. C'era il giovane Fuà, c'era già il giovanissimo Trentin che entrava nell'ufficio studi della Cgil.
Ci fu anche una ricca riflessione economica e l'elaborazione di proposte sostenibili di politica economica e finanziaria. Fu un grande esempio, e credo che non possa essere dimenticato.
Poi il testimone è stato raccolto anche nella stagione d'oro dell'unità sindacale. Ma non voglio fare il nostalgico, non avrebbe senso. In seguito, ci sarebbero state tante altre pagine discutibili della storia del sindacato, ma quel seme non si può perdere.
La Cgil di Di Vittorio e del giovane Trentin aveva una grande capacità di ascolto, che era anche capacità di partecipare alle riforme, ad un progetto condiviso di un'Italia che cambiava. Oggi questa capacità, nella Confederazione generale del lavoro e anche negli altri sindacati, più debole?
Sì, io penso di sì. Che sia più debole non c'è dubbio. Perché si è stati molto schiacciati sulla realtà drammatica di un paese in crisi, di un paese che perdeva punti, reddito, e in cui crescevano l'area della povertà e le sofferenze del lavoro. Ma penso sia indispensabile un colpo di reni per guardare più avanti e, con una certa ambizione, più lontano.
Il sindacato oggi è poco ambizioso, poterebbe esserlo di più?
Naturalmente il sindacato è molto combattivo nel difendere le conquiste del passato. E questo è un limite. Il mondo cambia e cambiano anche gli obiettivi in materia di diritti e di tutela.
Perché anche nel passato abbiamo preso delle cantonate, ad esempio quando abbiamo pensato che la scala mobile fosse una conquista irrinunciabile: la sua difesa divise il movimento sindacale e costò una gravissima sconfitta, soprattutto alla Cgil e al Pci. E non fu il solo errore. Quindi bisogna avere una grande sensibilità, un'apertura a cogliere quello che c'è di mutato, di più difendibile, di rinnovato.
Per questo ho considerato interessante l'idea di lavorare ad un nuovo Statuto dei diritti dei lavoratori. E' qualcosa di più convincente della difesa statica o in blocco dello Statuto del 1970 così come era.
Quindi lei avrebbe auspicato una maggiore collaborazione tra sindacato e governo sul Jobs act?
Ritengo che una maggiore collaborazione sarebbe importante ancora adesso, perché il discorso non è ancora chiuso. Bisogna dare attuazione alle deleghe, una parte importantissima, forse ancora più importante dell'approvazione delle norme giuridiche in senso stretto da parte del Parlamento.
Perché occorre sviscerare tutte le potenzialità in materia di politiche attive del lavoro, e naturalmente questo è un nodo cruciale. Non possiamo farci facili illusioni, è molto importante evitare la retorica.
Io non ho nessuna difficoltà a dire che la causa numero uno per cui battersi è il lavoro, e anche a sposare la formula, che può apparire desueta, 'piena occupazione'. E' una formula che compare nei trattati europei, perché è stato anche un ideale tendenziale.
Ci siamo spesi per decenni sul dettato costituzionale di diritto al lavoro. Però bisogna fare i conti con la realtà, e la realtà è un mondo radicalmente cambiato, il problema del lavoro è cambiato. Vede, ho citato la visita del presidente Lula. Lui mi ha detto semplicemente questo: “quando io ero operaio e cominciavo a fare il sindacalista, lavoravo in una grande fabbrica di automobili in Brasile che aveva oltre 40mila dipendenti.
Ora ne ha meno del decimo e produce molto più del doppio di allora”. Questo significa che è cambiato tutto: come creare lavoro, investimenti che producano occupazione, quale occupazione, come deve cambiare la domanda di lavoro oltre allo stimolo dell'offerta. E' cambiato tutto pure per il sindacato.
Però, per essere pragmatici, sono stati i sindacati storici, è stata la Cgil, a fare un passo indietro sulla riforma del lavoro, o è stato il governo? Perché non è stata trovata una quadra?
Tanto per esser chiaro, è indispensabile un metodo di dialogo serio tra il governo e i sindacati. Su questo non ho dubbi. Non ho giudizi su come sia stato tentato questo dialogo o su come e perché non sia riuscito in certi momenti e su certe questioni, come il provvedimento del ministro Poletti. Cosa diversa è invece pensare che sia possibile un ritorno a vere e proprie forme di concertazione.
La concertazione ha avuto un posto d'onore nella storia delle relazioni sociali in Italia, quindi guai ad usare toni sprezzanti: ricordiamo cosa è stato il dialogo tra il governo Ciampi, Trentin e tutti i sindacati, perché allora le grandi Confederazioni lavoravano di concerto.
Tornando alla concertazione, c'era l'idea che attraverso il dialogo tripartito (governo, sindacati, organizzazioni imprenditoriali) e gli accordi vincolanti tra le parti si potesse decidere quello che poi avrebbe dovuto votare il Parlamento. Ci fu un uomo molto aperto al riconoscimento del ruolo politico del sindacato come Pietro Ingrao che, da Presidente della Camera sostenne che Montecitorio non potesse limitarsi a registrare intese nate dalla concertazione.
Sono cambiate tante cose da allora, anche le esigenze di brevi tempi per le decisioni rispetto ai lunghissimi percorsi di concertazione. Ma il dialogo non può mancare, deve essere serio da entrambe le parti, senza pregiudiziali, diffidenze o ostilità. Mi permetto di dirlo a tutti, anche al governo. E' mancato un clima di dialogo. Ma non faccio processi alle responsabilità, perché poi ci sono casi in cui queste non si possono attribuire solo a una parte né si possono misurare con il bilancino.
Il ruolo di un sindacato più politico apre scenari ad una possibile scissione a sinistra nel Pd, che è il partito che affonda tradizionalmente le sue radici nel sindacato. Ci sono spazi per formazioni non alternative, ma a complemento?
A questa domanda posso solo rispondere da vecchio uomo di sinistra che non ha mai avuto in mente una scissione. Io ho avuto le mie posizioni all'interno del partito a cui allora appartenevo, posizioni che per vari aspetti restavano di minoranza. Ho dovuto confrontarmi con dissensi, ma mai mi è passato per la testa di prendere iniziative che potessero condurre ad una scissione. Ognuno ne tragga le conseguenze o l'insegnamento che vuole.
Io penso anche alla gravità della situazione del Paese, alla situazione politico-istituzionale, e penso a una politica che agli occhi di molti ha perso autorevolezza, credibilità. C'è stato un impoverimento culturale e morale delle forze politiche. C'è una reazione non solo di rigetto, ma di rigetto indignato, nei confronti della corruzione e del malaffare, che si trasforma in un rigetto della politica e dei partiti in toto.
Il sindacato non può pensare di salvarsi da questo fenomeno, perché sono ondate emotive, irrazionali. Sono anche ondate che hanno una impronta reazionaria e che tendono a colpire tutte le forme organizzate di partecipazione, di presenza nella vita sociale e pubblica.
Siamo di fronte ad un processo di polverizzazione politica, basti pensare alla proliferazione dei partiti in Parlamento e delle liste civiche alle elezioni, e anche una polverizzazione in campo sindacale. E' un problema di richiamo ad una responsabilità unitaria.
Lei prima parlava in modo angosciato dell'opinione pubblica. Questi sono i giorni di Mafia capitale e di una corruzione diffusa. E' frutto della crisi o c'è sempre stata?
Se oggi corruzione e malaffare sono fenomeni diffusi, non si può dire che ci sono sempre stati. E' anche vero che il tema della corruzione è all'ordine del giorno non solo in Italia. Pensiamo alle recenti elezioni in Spagna, che sono state connotate dal rigetto della corruzione che ha lambito e penetrato politica e istituzioni.
Però certamente i confini della realtà non finiscono qui, la politica non è solo corruzione. E' anche la capacità di riuscire a rispettare i limiti, la capacità di fare distinzioni, di non fare di tutta l'erba un fascio, di utilizzare tutti gli strumenti di indagine necessari e di far valere l'imperio della legge senza debolezze.
Però, che chiunque venga citato in una telefonata intercettata debba considerarsi colpevole, è eccessivo. Qui sorge il problema della garanzia, dei diritti, della dignità e della privacy della persona.
Non dimentichiamocene. Da questo punto di vista stiamo parlando di un momento assai difficile, perché il tema principale è la sicurezza. E' un problema mondiale, non solo italiano. Io ne ho parlato proprio in questi giorni a proposito delle carceri. C'è l'idea che di fronte a qualsiasi fenomeno deviante dal punto di vista della legge, la soluzione sia il carcere subito, la custodia cautelare immediatamente.
C'è una voce che si leva forte a chiedere più sanzioni penali. C'è stato un periodo, in Italia, non tanti anni fa, in cui invece si parlava della necessità di depenalizzare. E' stato seguito da fasi in cui si è ritornati alla sanzione penale come soluzione di tutti i problemi, nonostante sia dimostrato che il carcere non dà risultati se manca la funzione rieducativa prevista dalla Costituzione, se non si rispettano i diritti dei detenuti permettendogli di prepararsi ad un ritorno alla vita normale.
Abbiamo un numero assolutamente inaccettabile di recidive, ciò significa che il carcere così com'è non funziona.
Cioè seguiamo degli alti e bassi, siamo volubili?
Ripeto: abbiamo fortissime tensioni attorno a grandi questioni che riguardano anche le relazioni internazionali e la pace nel mondo.
Io volevo chiederle di parlare di numeri, i numeri della possibile ripresa che stiamo vedendo in questi giorni. Gli economisti ci avvertono che la nostra ricchezza prodotta, il Pil, cresce dello 0,7% quest'anno, ed è la prima volta.
Lei è stato, per la maggior parte del suo impegno al Quirinale, Presidente di un paese in crisi, in recessione. Oggi, con lo 0,7% di Pil in più, cosa bisogna fare per evitare che la ripresa sia un fuoco di paglia? Quale errore potremmo commettere adesso?
L'errore sarebbe quello di non dare coerenza e continuità a linee di politica economica e di politica europea che puntino alla ripresa, superando l'austerità come risposta alla crisi. Ma dire che tutto quello che è accaduto di negativo, anche socialmente, sia conseguenza delle politiche di austerità è un abbaglio. Si tratta di conseguenze delle crisi.
Poi bisogna ragionare se le risposte date alla crisi in chiave di austerità siano state sbagliate, eccessive o controproducenti. Ma ristabiliamo l'ordine dei fatti: ci vuole questa svolta attesa, acclamata, anche verbalmente sottoscritta in sede europea da tutti, e ben lontana dal realizzarsi pienamente. Quindi bisogna andare avanti in questa direzione, partendo da valutazioni obiettive esasperate, che creano reazioni un po' convulse e distruttive.
Vede, ho sempre teso a considerare con molta attenzione quello che viene detto dal Governatore della Banca d'Italia una volta all'anno, in occasione dell'assemblea generale, le cosiddette considerazioni finali. Sono valutazioni obiettive, nessuna parte sociale e politica ha interesse a non registrare seriamente queste valutazioni.
Quando queste ci dicono che c'è stato un recupero della domanda interna, un rialzo percepibile della spesa delle famiglie, e che la dinamica degli investimenti è tornata positiva, non lo si può negare, sostenere che andiamo sempre peggio oppure che ciò che di positivo si sta manifestando non vale nulla. In questo documento, dietro al quale ci sono molte ricerche ed elaborazioni, c'è scritto: 'andare avanti sulla via dell'innovazione e dell'innalzamento del livello di competitività dell'economia italiana'. Questo è essenziale anche per aprire prospettive per il lavoro, che rimane il punto più angosciosamente incerto e critico.
E' il primo punto all'ordine dell'agenda politica di questo governo. Quanto ha inciso il ruolo della Bce nella ripresa? In Italia, certo, dobbiamo fare le riforme, dobbiamo andare avanti su questo cammino faticosamente intrapreso. Forse, ad un certo punto, abbiamo un po' esagerato con le politiche di austerità?
Certamente abbiamo esagerato o sono state fatte politiche tendenzialmente indiscriminate, perché c'è chi ne ha sofferto di più e chi ne ha sofferto di meno o poco. Abbiamo avuto il dato gravissimo dell'allargamento dell'area della povertà e delle disuguaglianze, che è un grande tema mondiale e italiano, non scindibile da quello del lavoro.
La prima e fondamentale disuguaglianza è non garantire a molti, se non a tutti, un'occupazione. Non bisogna però perdere di vista il fatto che il debito accumulato non ce lo toglie nessuno dalle spalle, e dobbiamo continuare a fare i conti con questo tallone d'Achille.
In questa realtà complessa da raccontare, usciamo dall'Italia. Quanto ci ha aiutato il ruolo di Draghi nella Bce?
Ci ha aiutato e ci aiuta, in termini del famoso spread, sul quale si è fatta anche dell'ironia, una parola che è stata resa popolare in termine di paura. Però c'è poco da avere paura o non averla, se hai dei tassi di interesse alti, se sei costretto ad alzare i rendimenti dei titoli del debito pubblico senza i quali fallisce lo Stato. Le conseguenze significano miliardi di euro in più di interessi che devi pagare su quei titoli. Quindi è molto importante tenere sotto controllo lo spread.
La Bce ci ha aiutato a stabilizzare il mercato finanziario e a dare un impulso alle imprese, innanzitutto al sistema creditizio, affinché potessero alimentare investimenti e ripresa. E' stata una politica molto coraggiosa e innovativa, di cui si deve dare atto, anche a livello internazionale, ad un italiano come il presidente Mario Draghi. Direi che possiamo essere orgogliosi come italiani.
Secondo lei le disuguaglianze che si sono ampliate in questi 6/7 anni di crisi, riguardano molto la questione generazionale? Ci sono due Italie a velocità diverse? Parlo non solo della disoccupazione giovanile, ma anche delle differenze salariali, di quelle contrattuali...
Parliamo anche delle differenze tra Nord e Sud. Per quanto riguarda le differenze generazionali, c'è da ricordare una verità che da molti anni è stata denunciata, il primo a farlo fu l'allora ministro dell'Economia Tommaso Padoa Schioppa: il fatto che in Italia si dedicasse alla spesa pensionistica diversi punti di Pil in più che in qualsiasi altro paese europeo.
Il welfare e le politiche di benessere o protezione sociale in Italia sono state molto concentrate sulle pensioni, ma ci sono state delle aberrazioni, come le baby pensioni, alcuni vitalizi parlamentari concessi in età troppo giovane o con troppo aiuto della cassa pubblica.
Ma comunque, in generale, sono state trascurate altre forme fondamentali di protezione sociale. Da tanti anni diciamo che dobbiamo rivedere il sistema di welfare in Italia e non lo facciamo. Oggi un grande problema, posto anche a livello comunitario, è di avere un sistema europeo di assicurazione contro la disoccupazione. In Italia praticamente non abbiamo nulla.
Abbiamo solo molta disoccupazione e poca assicurazione. Recentemente i conti del governo sono stati messi a repentaglio da una sentenza della Consulta che ha imposto l'adeguamento delle pensioni la cui rivalutazione era stata bloccata. Le preoccupazioni del governo sono state quelle di correre ai ripari, e di trovare al momento una soluzione una tantum. Questa sentenza rientra nell'incapacità della politica di trattare il problema delle pensioni?
Io in tutti questi anni ho sempre difeso la Corte costituzionale da attacchi politici sguaiati. Non ho mai pensato che fosse appannaggio di uno schieramento politico. Ho sempre constatato e messo in luce l'assoluta indipendenza dei giudizi della Consulta. Naturalmente, non tutti i giudizi e le sentenze possono facilmente considerarsi opportuni, validi e giusti. Anche perché certe volte la giurisprudenza della Corte cambia rapidamente.
Qualche mese prima della sentenza, a gennaio, ce ne è stata un'altra (relatrice il giudice professoressa Cartabia) che io considero magistrale e che avrebbe offerto la possibilità di giudicare il caso dell'annullamento o sospensione per due anni delle rivalutazioni delle pensioni in modo diverso. Lì erano affermati dei criteri molto interessanti, che considero tuttora essenziali, cioè la necessità nei giudizi di costituzionalità di bilanciare diversi principi e valori. Da un lato, il valore del rispetto di posizioni acquisite legittimamente, di aspettative e di diritti costosi, e dall'altro, il valore del rispetto dell'equilibrio di bilancio, scolpito già nel vecchio articolo 81 della Costituzione e poi ulteriormente arricchito con la riforma.
Sono giorni difficili per il divario che esiste tra Nord e Sud. C'è un Italia divisa persino sull'immigrazione, con una parte delle regioni settentrionali che dicono no a un trasferimento dal Sud, da dove ovviamente arrivano, dei migranti.
Per quanto riguarda il rapporto tra Nord e Sud, constato che siamo usciti da vicende molto complesse nelle luci e nelle ombre di una politica di programmazione e di intervento straordinario, che miravano ad attenuare e colmare il forte divario di sviluppo e condizioni di vita. Poi quel capitolo si è chiuso, quell'esperienza si è consumata nei suoi meriti e nelle sue ambiguità o insufficienze. E si è dato molto peso all'impiego dei fondi europei per realizzare progetti di sviluppo civile ed economico nel Mezzogiorno. Poi l'uso di questi fondi è stato oggetto di molte giuste critiche, e comunque si è persa di vista la necessità di una strategia per lo sviluppo del Sud. Oggi soffriamo di un vuoto di strategia e di un vuoto di strumentazione. E' stata creata un agenzia che ancora non sappiamo come funzionerà, e quindi c'è da rilanciare, in tutto il suo spessore storico oltre che sociale, la questione del Mezzogiorno.
Non reagisco solo da vecchio meridionale e assertore della causa del Mezzogiorno a quello che sta succedendo in termini di accoglienza dei migranti in Sicilia e di non accoglienza in qualche regione del Nord. Io reagisco, in generale, come persona legata a una sensibilità umana, a dei principi etici e a dei codici internazionali, perché esiste una normativa internazionale cogente riprodotta nella Costituzione repubblicana per garantire l'asilo a persone che fuggono dalla guerra e dalle persecuzioni. Alcune persone fuggono dalla fame e cercano lavoro in Europa, e questa è l'immigrazione che chiameremmo più propriamente economica.
Ma il problema dei rifugiati è altro, e non si discute. Bisogna dare rifugio a chi fugge dalle persecuzioni della guerra, e dire 'lì sì e da noi no' è un aberrazione. Poi sappiamo che ci sarà da combattere contro le piaghe dalle quali nasce la miseria, e i tanti altri conflitti e guerre in Africa e nel sud del mondo. Come si può pensare che solo perché trovano più vicina la sponda siciliana nel Mediterraneo debbano essere trovate soluzioni per tutti in Italia e non nel resto d'Europa? O addirittura nell'Italia del sud e non in un'altra parte? Questo è semplicemente aberrante dal punto di vista morale, etico, del diritto internazionale e delle nostre responsabilità come membro responsabile della comunità internazionale.
I migranti che sono arrivati, in questi mesi e in questi anni, trovano un'Italia in cui il tessuto sociale si è logorato, in cui sono venuti meno valori di unità nazionale e accoglienza?
Sì, i valori della solidarietà sono logorati. In qualche modo ritorna anche la questione dell'unità nazionale dello Stato. Perché un presidente di regione non può dare direttive ai prefetti e ai sindaci. Insomma, c'è molto disordine, anche istituzionale.
La solidarietà si è logorata perché abbiamo avuto in larga parte dell'opinione pubblica una regressione dei valori, e questo è indubbio. Quindi deve ritornare forte il senso della solidarietà in tutta Europa, non solo in Italia. Noi non possiamo fare a tutti la lezione, perché negli anni '90, quando masse di fuggitivi giungevano dalle guerre della ex Iugoslavia, la Repubblica federale tedesca è arrivata a dare asilo a 100mila richiedenti ogni anno.
Oggi tutti i paesi europei devono confrontarsi non solo nelle operazioni di salvataggio in mare, ma anche nelle politiche di accoglienza, di riconoscimento in casa propria dell'asilo a chi ne ha diritto.
Le formazioni anti-europeiste di fronte ad atteggiamenti di chiusura dell'Europa hanno gioco facile.
Hanno gioco perverso, più che facile. Che sia facile o no dipende dalle reazioni dei cittadini. E anche dal senso di realismo. Perché non si va da nessuna parte con l'agitazione nazionalistica o addirittura discriminatoria nei confronti di chi fugge da situazioni terribili. Non c'è nessun realismo e prospettiva per quella strada, c'è una prospettiva che deve diventare realistica solo in un'Europa che si integri e unisca di più, e che sia più solidale nel suo seno.
Lei tra pochi giorni compie 90 anni, da 5 mesi è fuori dal Quirinale, è più sereno adesso?
Certamente sono più sereno, perché sollevato dal peso di decisioni quotidiane, di interventi concreti, spesso in condizioni molto delicate e difficili. Non sono sollevato dall'osservazione della realtà italiana. In particolare di quello che è accaduto e accade nel mondo del lavoro e dei senza lavoro. Perché io sono nato alla politica nel rapporto con quel mondo.
Mi dia una nota positiva e di speranza....
La nota positiva e di speranza è in tante cose che anche il presidente Mattarella ha citato di recente. Esempi di una solidarietà che non si è spenta, seppure assediata da posizioni che la negano.
Fonte: Cgil Toscana - Ufficio Stampa
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