Nel maggio del 1985 i gialloblu vinsero il campionato: ne abbiamo parlato con il tecnico che li guidò nell'impresa
Per quelli che nel calcio cercano significati altri rispetto al mero dato sportivo, lo scudetto che il Verona conquistò trent’anni fa rappresenta l’irripetibile successo dei giusti e dei coraggiosi, la meritata ricompensa del lavoro ben fatto e dei saldi valori di una volta, un unicum scampato alla ferrea dittatura finanziaria che oggi ordina inesorabilmente le gerarchie calcistiche: «Al contrario, credo che un’impresa come quella che riuscì a noi possa capitare di nuovo, nel calcio non si può mai dire», sdrammatizza Osvaldo Bagnoli, il mite e misurato condottiero che issò gli scaligeri sul tetto (calcistico) d’Italia. Ne parliamo nella sua casa veronese, dove si fa fatica a scorgere qualche segno del suo passato di giocatore e poi, soprattutto, di mago della panchina, tanto che la sola eco dello sport che lo ha reso celebre sono le urla dei ragazzini che hanno ingaggiato una furibonda partita nel giardino che si scorge dallo studio dove rievochiamo quel “miracolo” di mezzi anni ’80.
“L’Osvaldo”, come lo hanno sempre chiamato i veneti, ci mette meno di un secondo a smitizzare anche l’altra metafora cui sovente si ricorre per descrivere la parabola del Verona scudettato, che sarebbe cioè piaciuto a Serge Latouche, il teorico della decrescita felice, poiché fondato sul riciclo e il riuso (di giocatori dismessi da club più prestigiosi), sulla rivalutazione (di buoni giocatori liquidati troppo presto come bidoni) e sulla riduzione (dell’organico, che contava – udite, udite - solo sedici giocatori): «Le piccole squadre sono sempre andate alla ricerca di giocatori in saldo, dei giovani non ancora valorizzati o di quelli usciti dal grande giro dopo un fallimento conclamato o un rendimento inferiore alle attese: se hai pochi soldi, devi aguzzare l’ingegno e cercare di spremere il massimo dagli scarti degli altri», banalizza l’ex tecnico, che a luglio compirà ottant’anni.
Appunto, il suo grande merito fu quello di trasformare tanti brutti anatroccoli in splendidi cigni.
«Mi limitai ad applicare un banale insegnamento, appreso durante la carriera di calciatore: è meglio schierare i giocatori nel ruolo che preferiscono, nella parte di campo dove si sentono a proprio agio. Quando passai dalle riserve alla prima squadra del Milan, nel 1955, avevo appena vent’anni e trovai campioni come Nils Liedholm, Gunnar Nordahl, “Pepe” Schiaffino e Cesare Maldini. Non potevo avanzare troppe pretese, ero già contento di essere lì, ma quando mi davano la maglia n. 7 mi intristivo, andavo giù di morale. Volevo giocare in mezzo; non che pretendessi il “10”, che apparteneva di diritto all’immenso Schiaffino, ma se mi facevano indossare il n. 8 giocavo con un altro entusiasmo».
Insomma, non c’è modo di strappare un commento minimamente enfatico al sobrio ed equilibrato Bagnoli, che di queste cifre caratteriali fece il proprio marchio di fabbrica, in un calcio che proprio allora stava definitivamente cambiando pelle, per incamminarsi sulla strada della piena commercializzazione e dell’iperbole fine a se stessa. Si era alle soglie di un cambiamento epocale, che si sarebbe compiuto nel decennio successivo, con l’esplosione delle rose fino a 25/30 giocatori, con il trapasso integrale al calcio a zona e all’allegata neo-lingua fatta di “ripartenze” e “diagonali”, con l’invasione degli stranieri e, ancora dopo, con il dominio delle televisioni.
Nel 1984-85, i gialloblu beneficiarono forse di una temporanea fase di latitanza delle cosiddette “grandi”: la Juventus di Platini e Boniek puntava all’agognata Coppa dei Campioni (l’inseguimento al trofeo si sarebbe poi concluso nella tragica serata dell’Heysel), la Roma scontava il declino di Falcao e il necessario ricambio generazionale dopo il tricolore di due anni prima, l’Inter non riuscì a far leva sulla temibile coppia d’attacco formata da Altobelli e Rummenigge, il Milan languiva nel mediocre interregno di Giuseppe Farina prima dell’arrivo del rampante Silvio Berlusconi e, con il clamoroso acquisto di Diego Maradona, Corrado Ferlaino aveva appena cominciato la costruzione della squadra che avrebbe regalato due titoli al Napoli. Per il resto, lo scudetto del Verona, che rimase in testa dall’inizio alla fine ed ebbe la certezza matematica del successo il 12 maggio 1985, alla penultima giornata, fu il sacrosanto coronamento di una splendida cavalcata, cui dette il là proprio la vittoria contro il reclamizzatissimo “Pibe de oro”, sulle cui tracce, con una geniale mossa a sorpresa, Bagnoli spedì il nerboruto Hans Peter Briegel.
Un’altra invenzione di quell’anno memorabile, la trasformazione del tedesco da terzino a mediano…
«Briegel l’avevamo comprato verso la fine della stagione precedente, quando si pensava che Luciano Marangon se ne sarebbe andato. Invece, Marangon rimase, mi trovai con un difensore di fascia di troppo e quindi cominciai a rimuginare sull’ipotesi di spostare Briegel a centrocampo, dove avrebbe potuto far valere dinamismo e potenza. Per l’esordio contro il Napoli, avevamo Silvano Fontolan infortunato e dirottai nel ruolo di stopper Domenico Volpati, cui avrei affidato la cura di Maradona se fossimo stati a ranghi completi. Non volevo stravolgere l’equilibrio della squadra e mi parve che il tedesco fosse la soluzione ideale. Lo chiamai e gli chiesi se l’aveva già marcato in passato. Disse di sì, l’aveva marcato in nazionale e si era trovato bene. Andò a finire che, da centrocampista, Briegel segnò il gol del vantaggio, Maradona fu annullato e vincemmo 3-1. Dopo quella gara, Briegel mi rivelò che giocare in mezzo al campo era sempre stato il suo sogno».
Insieme a Briegel, l’attaccante danese Preben Larsen Elkjaer fu l’acquisto decisivo di quella stagione?
«I due stranieri furono le uniche aggiunte significative di quella campagna acquisti, si inserirono subito a meraviglia, in un periodo in cui era frequente che gli stranieri patissero un’iniziale flessione per le difficoltà di ambientamento. Elkjaer fu il complemento ideale di “Nanu” Galderisi e segnò il famoso gol del 2-0 contro la Juventus, senza la scarpa, dopo una sgroppata travolgente. Da quel momento prendemmo una grande fiducia: la difesa teneva, il centrocampo filtrava e costruiva, l’attacco segnava, tutto filava per il verso giusto. Alla vigilia di Natale eravamo in testa con due punti di vantaggio e volli trasmettere il mio ottimismo ai ragazzi. Li radunai nello spogliatoio e annunciai che dovevamo crederci fino in fondo, ma raccomandai a tutti di restare con i piedi per terra. Con i giornalisti, la consegna era di dire che il nostro obiettivo era la salvezza. Insistemmo così tanto che Gian Piero Galeazzi ne fece un tormentone: quando mi intervistava, voleva subito sapere quanti punti mancavano per salvarsi!».
Quali furono i suoi giocatori-chiave?
Oltre a quelli già ricordati, non bisogna dimenticare il contributo fondamentale di Roberto Tricella, un libero modernissimo che fungeva da primo regista delle squadra, o di Antonio Di Gennaro e di Pietro Fanna, che rinacquero dopo aver deluso con Fiorentina e Juventus e furono capaci di conquistare la nazionale. Tuttavia, il fattore decisivo fu il comportamento del gruppo, l’armonia che regnava nello spogliatoio, anche quando cominciò a profilarsi il successo finale. Di questa compattezza, fu simbolo Luciano Bruni, un comprimario cui ricorrevo saltuariamente e per brevi spezzoni di partita: non si lamentava mai, svolgeva con diligenza il suo compito e accettava ogni decisione con spirito collaborativo. Per il cenone di San Silvestro, venni a sapere che i giocatori si erano riuniti con le famiglie per festeggiare tutti insieme. Ecco, con una battuta, potrei dire che una squadra così non c’era bisogno di allenarla, era sufficiente non far danni!».
Giunto in vetta, il Verona giocò ancora un paio di tornei dignitosi. Poi, i migliori fatalmente cedettero alle lusinghe dei quattrini e si accasarono nelle metropoli. Bagnoli restò: «Non ho mai ricevuto un’offerta diretta per allenare il Milan», precisa a proposito della leggenda secondo cui Berlusconi lo scartò perché comunista. Passò al Genoa e lo condusse al miglior piazzamento del dopoguerra, un quarto posto che valse l’Europa e addirittura la semifinale di Coppa Uefa l’anno seguente. Tornò infine nella natia Milano, sponda nerazzurra, ma lì lo spogliatoio era una polveriera e “l’Osvaldo” patì l’onta dell’esonero. Bagnoli assaporò la quieta soddisfazione che dopo molti decenni gli dava la possibilità di dedicarsi alla famiglia e, a soli 59 anni, si lasciò scivolare fuori da un ambiente che ormai faceva fatica a sentire come il suo.
Paolo Bruschi