
Fu arrestato con tutta la famiglia mentre stavano cercando di rifugiarsi in Svizzera. Era il 17 aprile 1944. Gilberto Salmoni, ebreo genovese, aveva solo 16 anni quando fu internato nel lager di Buchenwald insieme al fratello. Padre, madre e sorella finirono invece ad Auschwitz dove avrebbero trovato la morte. Salmoni sopravvisse e oggi è uno dei testimoni militanti di quell’orrore. Gli studenti di Vaiano lo incontrano domani mattina, ore 9, alla scuola media Bartolini, appuntamento promosso dal Comune di Vaiano in collaborazione con la Fondazione Museo della Deportazione e Resistenza nel quadro delle celebrazioni del Giorno della Memoria
“In tedesco”, ricorda, “Buchenwald significa bosco di faggi. Ci arrivammo in una notte d’agosto. Al mattino spoliazione, doccia, depilazione e vestiario orribile da lager: camicia, giacca e calzoni a strisce, un paio di zoccoli. Poi il numero: a me toccò il 44.573, a mio fratello il 44.529. Qualche giorno dopo gli alleati bombardarono il campo e la vicina stazione diWeimar. Fu terribile. Da buon medico mio fratello volle aiutare a soccorrere i feriti. Poi ci mandarono a sgomberare le macerie e alla ricostruzione, sempre sotto i mitra delle SS.
“Coi francesi ci si trovava bene, c'era una forte solidarietà. Quando ricevevano pacchi dalla Croce Rossa il destinatario prendeva per sé sapone e sigarette, ma divideva con noi altri gli alimenti. Una sorpresa piacevole. Così una volta che fui comandato a pulire lenticchie per le SS, ne fregai un po’ e divisi anch’io. Ho fatto anche l’aiuto muratore, andavo a prendere la calce con la carriola, facevo la malta. Dovevamo lavorare alla ricostruzione delle fabbriche bombardate.
“A un certo punto rischiammo di separarci, io in una squadra trasporti, mio fratello in sartoria. Ma col poco tedesco che sapeva si rivolse a un medico del lager: "Sono medico anch’io”, gli disse, “vorrei partire con mio fratello". Rischiò grosso, ma ci andò bene. Grazie a quel’uomo fui trasferito in cucina. Niente di troppo confortevole, però: presi lo scorbuto, non si mangiava che patate crude e per dormire una tavola cosparsa di paglia da dividere con un altro internato. Si cercava solo di risparmiare energie, di non farsi dominare dallo sconforto, di sopravvivere.
“Le ultime settimane furono di ansia tremenda. Si diceva anche che il campo fosse minato e che saremmo stati eliminati tutti prima dell’arrivo degli alleati. Un giorno, però, sentimmo i cannoni, vedemmo aerei volare a bassa quota e capimmo che gli americani erano vicini. Allora il Comitato di Liberazione Internazionale uscì allo scoperto dando indicazioni per evitare eventuali rappresaglie finali. Non si andava più a lavorare, non funzionava il crematorio e i morti si ammassavano in cataste. Anche le SS erano scomparse. Ci dicemmo: "Allora siamo davvero liberi".
“Qualche ora dopo vidi la prima jeep della Terza Armata Usa. Tra l'11 e il 12 aprile il lager di Buchenwald fu tutto liberato. Gli americani ci dettero documenti di identità, ma proibirono di uscire per non diffondere malattie. E obbligarono gli abitanti di Weimar a visitare il campo. Scoprirono anche cose che ignoravamo. Ad esempio una cantina della tortura sotto il crematorio, un lungo corridoio con tanti ganci e le pareti scrostate dai calci di chi veniva impiccato.
“Due giorni dopo la liberazione inglesi, francesi e altri vennero subito a portar via i loro prigionieri. Dall’Italia, invece, arrivò solo una macchina del Vaticano a prendere Fausto Pecorari, il futuro vice presidente democristiano della Costituente. Allora ci arrangiammo da soli. Si prese un treno fino a Rosenheim e finalmente si approdò a Bolzano in un campo di accoglienza. A Genova arrivai due mesi dopo che eravamo stati liberati, forse il 10 o il 12 giugno. Era pochi giorni prima del mio compleanno che cade il 15”.
Fonte: ufficio stampa
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