
La bottega di Fiorindo, di San Romano, frazione di Montopoli in valdarno, alla fine dell’anno ha tirato giù il bandone per l’ultima volta e le sue imposte da ora in poi rimarranno chiuse. Nonno Fiorindo aveva comprato la bottega nel 1929, 85 anni fa. Quando la comprò lui aveva trent’anni, aveva moglie e un figlio, mio padre, ma non aveva i soldi per pagarla, la bottega. Il vecchio proprietario, il Nazzi, gliela cedette lo stesso, senza garanzie, con l’impegno che il nonno avrebbe pagato appena potuto. E infatti per due anni, per poter pagare il debito, d’estate andò, con la famiglia, in Piemonte a far mattoni.
Andare in Piemonte a far mattoni voleva dire andare a vivere per tre o quattro mesi in un luogo lontano da casa, alloggiati in condizioni di promiscuità, in baracche fatiscenti e malsane spesso infestate da topi e parassiti e poi con un clima caldo e umido assolutamente insopportabile. In questa situazione precaria si doveva anche fare un lavoro duro e pesante dall’alba al tramonto: quello di formare a mano, dopo aver impastato l’argilla, i mattoni che poi venivano cotti nelle fornaci.
Si era pagati a cottimo e quindi più mattoni si facevano e più si guadagnava e per questo si lavorava duro. Per due anni il nonno andò in Piemonte a fare mattoni, per saldare il debito della bottega. Non si limitò però solo a rilevare, come si direbbe oggi, un esercizio commerciale, ma volle dare subito alla sua attività quell’impronta personale, seria e professionale, che la bottega ha mantenuto fino a quando ce ne sono state le possibilità al contorno.
Infatti quando la comprò sulla facciata della casa sopra la porta c’era scritto grande e in stampatello: “VENDITA DI TOPA E CASTAGNACCIO” Ai tempi si chiamava topa la cecìna, ovvero la farinata fatta con la farina di ceci e cotta in forno, ma il Nazzi, il precedente proprietario, forse a fini pubblicitari, aveva giocato un po’ anche sull’equivoco delle parole. Come prima cosa allora il nonno fece cancellare quella scritta e la sostituì con quella più seria di “ALIMENTARI E VINO”, senza dubbio più in linea con i criteri di gestione che lui avrebbe di lì in poi imposto al negozio.
Il nonno, sempre serio e compassato conduceva questa sua attività con la stessa attenzione che si deve dedicare ad un servizio pubblico a disposizione della comunità. La bottega era sempre aperta, con orario continuato, si direbbe oggi, dalla mattina alla sera, a volte anche dopo cena, per sette giorni a settimana, per ogni giorno dell’anno, Natale e Pasqua inclusi.Ma cos’era e com’era, per chi non l’ha conosciuta, la bottega di Fiorindo? Anche per me, che ho avuto la ventura, da ragazzo di averla vissuta, è difficile oggi da spiegare.
È difficile, perché non trovo possibilità di confronto con esperienze contemporanee a cui poterla raffrontare; ciò nonostante tenterò di raccontarla. Prima di tutto era il punto di riferimento di un gruppo di case, di una borgata del paese detta “Capraia” e quindi anche di coloro che abitavano in quelle case. C’era un rapporto e un collegamento diretto, quasi di appartenenza reciproca, tra la bottega e queste persone.
La spesa dei prodotti alimentari si faceva lì tutti i giorni, perché non c’erano mezzi di trasporto per arrivare più lontano, perché la gente non aveva il frigorifero e quindi comprava ogni giorno solo ciò che consumava e soprattutto perché non c’erano spesso neanche i soldi per fare scorte e provviste e spesso si mangiava anche perché Fiorindo “segnava” sul libretto e sul registro e aspettava a riscuotere che arrivasse la paga a fine mese e a volte aspettava anche di più. Ma la bottega non era solo questo, era anche un luogo, l’unico, di possibile aggregazione della gente; il tempo libero gli uomini lo passavano lì a bere un bicchiere di vino, a giocare a carte e a leggere il giornale, che tutte le mattine arrivava fresco di stampa. Questo pubblico di residenti, poi, sempre in questo posto, entrava in contatto anche con persone “forestiere”, che invece utilizzavano la bottega come punto di ristoro.
In genere erano i barrocciai e poi i camionisti, che, obbligatoriamente, di frequente dovevano sostare al passaggio a livello della ferrovia che era proprio li davanti e che a quei tempi rimaneva a lungo chiuso. Anche loro bevevano un bicchiere, scambiavano due parole, portavano le notizie dei paesi vicini e raccoglievano quelle del luogo.
Dopo averla descritta così, ci si potrebbe immaginare che questa bottega fosse chissà quale struttura polivalente, e invece no, era una cosa semplicissima e in qualche modo anche dimessa, assolutamente in tono con la vita povera e semplice che si conduceva nella borgata; fisicamente si trattava di un’unica stanza un po’ allungata: si entrava direttamente dalla strada dall’unica porta esistente.
La stanza era sempre un po’ in penombra; alle pareti c’erano delle panche, poi dei tavolini con il piano di marmo con degli sgabelli; dalla parte opposta alla porta c’era il banco diviso in due pezzi: dalla parte sinistra quello più piccolo della mescita del vino e a destra quello più grande per i generi alimentari. Dietro il banco mensole di marmo dove si tenevano in ordine: vasi di vetro pieni di caffè, cacao, caramelle, oppure scatole di latta per i biscotti, ma anche cassette di legno per la pasta da vendere sfusa.
Il banco divideva la stanza in due zone con funzionalità diversa: davanti al banco lo spazio destinato ai clienti che al mattino era costituito soprattutto dalle donne che andavano a fare la spesa, mentre di pomeriggio si trattava essenzialmente di coloro che si intrattenevano nel locale per parlare, giocare a carte e bere un bicchiere.
C’era sempre gente in bottega e praticamente l’unica cosa che si beveva era il vino; un bicchiere di vino, quando io ero ragazzo, costava venti lire. Lo svago prediletto di questi avventori era il gioco delle carte; a volte capitava che, se mancava il quarto, anche il nonno facesse la partita, ma, anche quando vinceva, non si faceva mai pagare il costo del bicchiere di vino, che costituiva la posta in gioco.
Stranamente con il boom economico e con l’avvento del consumismo, iniziò il lento ma inesorabile declino di questa struttura, nata per essere al servizio e in equilibrio con un ambiente circoscritto, quello della piccola borgata nella quale si trovava. Nel momento in cui la gente comincia a muoversi e ad avere riferimenti diversi, i modesti, anche se sicuri, servizi che poteva offrire la bottega non bastarono più.
Mi ricordo del momento in cui venne in vigore la norma che obbligava i negozi di alimentari a rimanere chiusi la domenica. Per il nonno fu un trauma, perché non si rendeva conto come poter fare con il pane, che tutti acquistavano ogni giorno nella quantità a loro necessaria. E poi subentrarono gli altri problemi collegati all’evoluzione dei gusti delle nuove generazioni, per le quali nelle preferenze, al vino, si era aggiunto soprattutto il caffè, la birra e le altre bibite prodotte dall’industria e servite poi in locali più eleganti e più decorosi.
Per questi motivi il nonno, alla fine degli anni ’60, decise di modificare l’assetto del negozio: tolse la mescita e lasciò solo la vendita dei prodotti alimentari, affidandone anche la gestione alla figlia, la zia Romana e a suo marito Domenico che da quel momento in poi se ne sono sempre occupati.
Ma purtroppo, l’evoluzione dei gusti, il consumismo e una politica del commercio, che sempre ha privilegiato la grande distribuzione, hanno fatto sì che la bottega non potesse rimanere al passo con le nuove esigenze di quei nuovi consumatori indirizzati e diretti dagli spot televisivi. E poi ad oggi c’è da mettere anche in conto l’età dei gestori, che a questo punto, dopo una vita passata al servizio del pubblico, non hanno più le forze necessarie per continuare, mentre le nuove generazioni, non se la sentono di mettersi al timone di una vecchia barca, in un mare in tempesta.
Così questo antico negozio di alimentari, che ancora, dopo tanto tempo, tutti ricordano come la Bottega di Fiorindo ha chiuso i battenti e ha abbassato la saracinesca, dopo ben ottantacinque anni non di onorata attività, ma, mi piace dire, di fedele servizio.
Quella saracinesca abbassata per me costituisce oggi a livello personale un segno; si tratta di una radice dolorosamente recisa, di un altro pezzo di vita che devo riconoscere come definitivamente concluso e a volte non è facile accettare.
Certo non sarà per questo che si potranno cancellare i miei ricordi perché mi è sempre caro ripensare alla magia di quel luogo strano, la bottega di Fiorindo, che frequentavo da bambino e a alla figura del nonno che esercitava quel suo mestiere di bottegaio con la stessa compostezza e con la stessa dignità con la quale si può curare chi sta male, oppure amministrare la giustizia.
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