Cinquant'anni fa nasceva il più grande talento cestistico europeo, la cui carriera patì la sfortuna e gli effetti della contrapposizione ideologica fra Est e Ovest
Lo struggimento tipico di una completezza che non si riesce ad afferrare, la malinconia del tempo che scorre, il talento che si arrende a forze soverchianti e non mantiene le promesse: questi sono i sentimenti che suscita la traiettoria agonistica di Arvydas Sabonis. Quando nacque, il 19 dicembre 1964, la Lituania era parte integrante dell’Urss. Le altalenanti vicende del conflitto mondiale erano terminate con l’occupazione del territorio da parte dell’Armata Rossa e la sovietizzazione del paese, cui contribuì una massiccia immigrazione russofona imposta da Stalin. L’orgoglio nazionale fu calpestato e sopravvisse sottotraccia nella passione che i lituani riversarono sulla pallacanestro. Come nazione indipendente erano stati bi-campioni d’Europa alla fine degli anni ‘30, poi costituirono il nerbo delle rappresentative sovietiche che dominarono il gioco nel dopoguerra.
Originario di Kaunas, dove il governo aveva edificato nel 1939 il primo stadio di basket d’Europa, Sabonis si mise in luce prima dei 18 anni, quando una selezione giovanile dell’Unione Sovietica giocò contro le migliori squadre universitarie degli Stati Uniti. Gli osservatori americani ne rimasero impressionati: alto 221 cm, ben proporzionato e dotato di una singolare esplosività per un uomo di quella taglia, il teenager lituano era implacabile e inarrestabile vicino a canestro, ma era pure capace di centrare la retina da tre punti e di passare il pallone (sovente senza guardare!) con la disinvoltura di una guardia. Red Auerbach, il leggendario presidente dei Boston Celtics, lo definì forse il miglior pivot del mondo.
Nel giugno del 1986, mentre Michail Gorbačëv aveva da poco avviato la perestrojka e la Guerra fredda stava per conoscere una fase di distensione, i Portland Trail Blazers acquisirono i diritti di Sabonis per il campionato NBA, incuranti che avesse appena subito la rottura del tendine di Achille. Larry Weinberg, il presidente dei Blazers, disse che l’aveva fatto per la pace fra i popoli: come la diplomazia del ping-pong aveva aperto le relazioni fra Usa e Cina e preparato lo storico viaggio di Richard Nixon a Pechino del 1972, così la scelta del centro lituano offriva ad americani e sovietici lo spunto per sotterrare l’ascia di guerra e sviluppare rapporti di amicizia.
Il ramoscello d’ulivo di Weinberg, prevedibilmente, non smosse il Cremino, e neanche la Casa Bianca. Destò invece l’attenzione di Dale Brown, l’ambizioso coach dell’Università della Louisiana (LSU), alla disperata ricerca di un centro per la sua squadra. Il 20 giugno 1986, spedì forse la sola lettera che Gorbačëv abbia mai ricevuto a proposito di un giocatore di basket: Brown annunciò che sarebbe volato a Mosca per illustrargli un’eccellente opportunità per migliorare le relazioni fra le due superpotenze. Alla fine del 1985, Gorbačëv aveva incontrato Ronald Reagan a Ginevra nel loro primo summit. Il comunicato finale impegnava i due leader a cercare vie per il disarmo atomico, ma esprimeva altresì l’auspicio a incrementare gli scambi fra i due paesi in ambito culturale, medico, educativo e sportivo.
Brown propose quindi che contingenti di giovani giocatori americani e sovietici si rendessero reciprocamente visita, che LSU girasse l’Urss in tournee e che in cambio Arvydas Sabonis giocasse per l’Università della Louisiana. L’accordo avrebbe dovuto essere ratificato nientemeno che da due cerimonie, la prima da tenersi al Cremlino e la seconda alla Statua della Libertà. L’ardimentoso allenatore non era così megalomane da ignorare che un proposito del genere, per avverarsi, aveva bisogno degli appoggi giusti ai massimi livelli e si adoperò per conseguirli. Un’altra missiva partì per coinvolgere Armand Hammer, il magnate della Occidental Petroleum che da tempo faceva affari in Russia ed era così intimo con le alte sfere della nomenclatura comunista da aver contribuito a persuadere Gorbačëv ad acconsentire al vertice di Ginevra. Una lettera ulteriore arrivò sulla scrivania della Stanza Ovale e per assicurarsi che fosse aperta, Brown mobilitò alcuni congressmen. Il direttore dell’Ufficio governativo per i rapporti con l’Urss rispose per conto del presidente: l’iniziativa dello scambio era massimamente apprezzata, ma, in una fase di intensi negoziati sulla proliferazione nucleare, Washington non intendeva spendere il proprio capitale politico per favorire il reclutamento di un giocatore di basket. Anche l’aiuto di Hammer evaporò, poiché al momento di partire per Mosca con Brown, l’anziano tycoon si ammalò e rinunciò la viaggio.
L’ultima speranza era sondare i desideri dello stesso Sabonis. Mentre l’Urss era impegnata a Madrid nelle qualificazioni al campionato del mondo, una studentessa di giornalismo del Missouri di origine lituana, su mandato di Brown e con stratagemmi degni del miglior agente segreto, eluse la sorveglianza che vigilava sui giocatori sovietici e avvicinò il gigante del Baltico. Sì, Sabonis sarebbe stato felice di giocare per LSU, ma voleva farlo con un permesso ufficiale, secondo le regole esistenti. Le regole, però, dovevano tenere conto che Mosca non avrebbe accettato di perdere il suo miglior giocatore prima dei Giochi di Seoul del 1988: contro questa posizione, la volontà di Arvydas era del tutto irrilevante.
Brown non riuscì nel suo intento. Ancora inattivo per la ricostruzione del tendine di Achille, Sabonis andò per la prima volta a Portland nella primavera del 1988, per seguire un programma di riabilitazione pensato e pagato dalla franchigia dell’Oregon. Era ancora claudicante, quando l’Urss lo convocò per le Olimpiadi estive, suscitando le proteste dei Blazers che volevano tutelare il loro investimento. Con la propria stella in quintetto, gli uomini del coach Aleksander Gomelsky estromisero proprio gli Usa in semifinale e conquistarono l’oro a spese della Jugoslavia.
L’intenso calendario degli impegni sportivi, ma soprattutto la riabilitazione affrettata e la ripresa prematura dell’attività agonistica per la kermesse sud-coreana, misero una pesante ipoteca sulla salute futura del campione. Fastidi cronici insorsero alle ginocchia, alle caviglie e all’inguine, come conseguenza dell’insufficiente riposo che gli fu concesso in quegli ultimi anni di contrapposizione fra i blocchi, quando il declinante prestigio dell’Urss poteva essere puntellato da un ragazzone baciato dalla grazia e penalizzato da un corpo fragile.
Nel 1989 gli fu concesso di iniziare la carriera professionistica, che Sabonis intraprese in Spagna, ritenendo che il suo fisico non fosse pronto per la NBA. Con Valladolid e Real Madrid, slalomeggiando fra perenni guai fisici, Arvydas rastrellò nuovi trofei. Infine, nel 1995, accettò la corte dei Blazers e a 30 anni suonati esordì nel campionato più mediatico del mondo, non prima però che lo staff medico che lo visitò restasse impressionato dalle sue radiografie, più utili a garantirgli un parcheggio per disabili piuttosto che una sfida contro Michael Jordan o Shaquille O’Neal. Aveva ancora la morbidezza della classe, la visione di gioco di un playmaker e il corpo erculeo, ma la mobilità era pari a quella delle tante statue dei padri della rivoluzione comunista, che la furia iconoclasta delle folle aveva abbattuto all’indomani della dissoluzione dell’Unione Sovietica. Eppure, bastò l’ombra di se stesso da giovane a conquistargli l’adorazione degli tifosi americani nei sette anni di militanza con Portland.
Nel 2011, quando gli fu riconosciuto l’onore dell’inserimento nella Hall of Fame di Springfield, la galleria degli eroi internazionali della palla a spicchi, Sabonis se la cavò con un discorso di accettazione di 49 secondi: come altrimenti avrebbe potuto mettere in parole la storia di ciò che era, che avrebbe potuto essere, ma non fu?
Paolo Bruschi