La battaglia di Highbury

Giusto 80 anni fa, il fascismo trasformò una sconfitta sul campo in una sonante vittoria morale


I capitani Meazza e Hapgood prima dell'avvio delle ostilità

I capitani Meazza e Hapgood prima dell'avvio delle ostilità

In Storia del calcio in Italia, Antonio Ghirelli, ex direttore dell’Avanti e capo dell’ufficio stampa del Quirinale durante la presidenza di Sandro Pertini, scrive che i resoconti dell’epoca avevano tramandato il ricordo aspro di una rude contesa, cui gli azzurri avevano fatto fronte in modo corrusco e violento. Nel suo Calcio 1898-2007: storia dello sport che ha fatto l’Italia, lo storico inglese John Foot precisa che alla fine della gara la lista degli infortunati assomigliava a un bollettino di guerra e non fece pertanto meraviglia che la partita passasse ai posteri come la “battaglia di Highbury”. L’ovvia metafora bellica si riferisce beninteso al ruvido incontro che l’Italia, fresca di titolo iridato, disputò contro i maestri inglesi il 14 novembre 1934 sul terreno dell’Arsenal, che la pioggia insistente aveva reso simile alle trincee dove si era combattuta la prima guerra mondiale.

Era, quel tempo, segnato calcisticamente dal supponente isolamento britannico, poiché i bianchi inglesi si ritenevano al punto migliori degli altri paesi da disdegnare la partecipazione all’appena nata Coppa Rimet - la nazionale dei Tre Leoni sarebbe uscita dall’altezzosa auto-segregazione ai Mondiali del 1950, soltanto per venire clamorosamente estromessa dalla raccogliticcia formazione statunitense, assemblata alla bell’e meglio con immigrati dell’ultim’ora.

Nel 1934, tuttavia, l’aura di manifesta superiorità era ancora intatta e la sfida di Londra assunse il sapore di una sorta di spareggio o challenge round, per mutuare un termine allora in voga nel tennis, che avrebbe designato la squadra più forte del mondo. Gli azzurri vi si apprestarono sulla spinta della vittoria conquistata ai Mondiali casalinghi, cui la macchina fascista si era dedicata con solerzia e convinzione tali da orientare l’esito di alcuni incontri particolarmente delicati, e sull’onda dell’entusiasmo alimentato dai più alti gerarchi. Il Duce in persona aveva perorato la causa dell’amichevole con gli inglesi, che giudicava una resa dei conti non meno ideologica che sportiva. Per la sua parte, la stampa alimentò lo scontro di civiltà. Bruno Roghi, autorevole giornalista e di lì a poco leggendario direttore della Gazzetta dello Sport, definì lo stadio di Highbury il “teatro di una guerra internazionale”, mentre sui fogli inglesi comparvero fotografie che ironizzavano razzisticamente sulla presunta arretratezza degli italiani. Questi cessarono quasi ogni attività lavorativa e con grande trepidazione seguirono la gara attraverso la radiocronaca di Niccolò Carosio, la cui spiccata germanofilia lo indusse a calcare i toni retorici contro la “perfida Albione”.

Niccolò Carosio durante una delle sue radiocronache

Niccolò Carosio durante una delle sue radiocronache

Dal vivo, nonostante il tempo inclemente, 60.000 spettatori stiparono gli spalti di Highbury e furono immediatamente ricompensati da una partenza folgorante dei padroni di casa. In appena un quarto d’ora, l’Inghilterra costruì un vantaggio di tre reti, pur sprecando un rigore in apertura. L’ardente arrembaggio dei bianchi non aveva trovato opposizione, anche a causa del subitaneo infortunio occorso a Luisito Monti, l’oriundo argentino cui erano solitamente ancorati il centrocampo e la difesa dell’Italia. Il regolamento dell’epoca non consentiva sostituzioni e Monti fu semplicemente relegato all’ala con un piede rotto dal violento tackle di Ted Drake. Di fatto ridotti in dieci, gli azzurri serrarono i ranghi e risposero colpo su colpo, menomando a loro volta diversi avversari. Lo stesso Drake fu ferito a una gamba e il capitano Eddie Hapgood dovette sostare un bel po’ fuori dal campo con il naso rotto.

Negli spogliatoi, ormai liberatisi dei timori reverenziali, gli azzurri furono opportunamente catechizzati dall’allenatore Vittorio Pozzo, il vero artefice dei successi italiani degli anni ’30. Singolare esempio di asceta dedito al lavoro, Pozzo non percepì una lira per tutta la durata dell’incarico di allenatore, che assolse fino al 1948 con il piglio paternalistico e militaresco che aveva ricavato dal suo servizio negli Alpini, durante la Prima guerra mondiale. Provvisto altresì di notevole acume tattico, affinato proprio in occasione di plurimi soggiorni in Inghilterra negli anni ’20, il tecnico piemontese spronò i suoi alla carica per il secondo tempo, che fu in effetti un monologo azzurro.

Grazie a una fulminea doppietta di Giuseppe Meazza, il fuoriclasse dell’Inter soprannominato “Balilla”, l’Italia si portò a ridosso degli inglesi e continuò l’assedio in inferiorità numerica, gettando in visibilio l’incredulo Carosio, la cui magniloquenza attinse vette inaudite. La pressione costante non produsse però il sospirato 3-3: nel finale fu la traversa a negare una tripletta sensazionale a Meazza, che nelle sue memorie avrebbe poi raccontato di considerare quel mancato pareggio la più cocente delusione della sua carriera.

I giocatori inglesi ricevono le cure dei medici

I giocatori inglesi ricevono le cure dei medici

L’indomani, sui giornali inglesi campeggiava soprattutto lo sdegno per la condotta brutale dell’Italia. Dei giocatori di casa si riportava lo stato sanitario tra pesanti contusioni e fratture agli arti. Non pochi chiesero alla Federazione inglese di astenersi del tutto dagli incontri internazionali, anche alla luce del crescente nazionalismo: lungi dal rappresentare un occasione di cavalleresco confronto, si argomentava, le partite di calcio rischiavano piuttosto di incendiare le già surriscaldate relazioni diplomatiche fra i paesi europei. Dal canto suo, il regime mussoliniano non poté esimersi dal dare fiato alle trombe dell’orgoglio fascista e i giornali furono istruiti per contrabbandare la sconfitta di misura come una sonante affermazione morale.

La pagina del "Littoriale" dedicata alla partita

La pagina del "Littoriale" dedicata alla partita

Del resto, benché si debba a volte diffidare delle nette suddivisioni temporali operate dagli storici a fini interpretativi, è opinione largamente condivisa che, nel turbolento periodo fra i due conflitti mondiali e soprattutto negli anni dell’ascesa dei regimi totalitari, il calcio e lo sport in genere siano diventati una faccenda politica. Non per caso, occorre aggiungere.

Gli orari di lavoro avevano cominciato a decrescere e le masse godevano di più tempo libero da dedicare allo svago e al consumo. Sia le democrazie che i sistemi dittatoriali avevano scoperto il potere della propaganda. Se Adolf Hitler aveva scritto nel Mein Kampf che sei milioni di individui perfettamente addestrati allo sport avrebbero costituito la premessa fondante di un esercito bellicoso, il fascismo aveva addirittura edificato se stesso su una concezione virile e attivistica del corpo, imperniata sull’educazione fisica di massa come strumento di potenziamento atletico e di controllo sociale. Mussolini fece costruire stadi di calcio in tutto il paese, volle il campionato a girone unico che fu inaugurato nel 1929 e precocemente sfruttò le competizioni sportive per fini di cemento nazionalistico, come diversivo anestetizzante e in generale per promuovere e radicare l’ideologia fascista.

Gli undici uomini che tennero testa all’Inghilterra e che giocarono come «un plotone di gladiatori», furono perciò prontamente ribattezzati i “Leoni di Highbury”, un appellativo che valicò l’oblio dei decenni per giungere fino a uno stesso mercoledì 14 novembre, ugualmente brumoso e piovigginoso. L’anno era il 1973 e a Wembley si rinnovò la sfida fra le due scuole calcistiche. Gli azzurri violarono per la prima volta il tempio del calcio inglese, grazie a una tarda rete di Fabio Capello, che fu lesto ad approfittare di un’incertezza del portiere Peter Shilton: la prima dedica toccò inevitabilmente a quegli antenati che nel 1934 avevano conquistato un posto nella piccola storia dello sport grazie a una sconfitta spacciata per vittoria.

Paolo Bruschi