I 60 anni di Marco Tardelli, l'eroe di Madrid

Un ricordo del ruolo decisivo di "Schizzo" nel successo del 1982, il giorno del suo compleanno


Tardelli

Se “L’urlo” di Edvard Munch rappresenta l’angoscia dell’uomo per la paura della solitudine e della morte, quello che Marco Tardelli liberò allo stadio Santiago Bernabeu di Madrid, dopo la rete alla Germania Ovest nella finale dei Mondiali del 1982, è invece la più fulgida immagine della gioia e dell’esaltazione. Almeno, per noi italiani. Per i tedeschi il simbolismo non è forse distante da quello della celebre opera del pittore norvegese.

Senza voler imporre paragoni irriverenti, non è azzardato dire che il grido dell’azzurro è per molti più conosciuto di quello immortalato da Munch e senz’altro produce, con la medesima intensità, emozioni e ricordi di rara potenza. Quello che pochi rammentano è che Tardelli, che proprio oggi compie 60 anni, non era nuovo a esultanze così clamorose, anche se, comprensibilmente, quella di Spagna ha oscurato tutte le precedenti.

Il 4 maggio 1977, la Juventus disputò la gara d’andata della finale di Coppa Uefa, contro gli spagnoli dell’Atletico Bilbao. A Torino, la formazione allenata da Giovanni Trapattoni si impose di misura, grazie a Tardelli, che in qualche modo deviò in porta un traversone di Gaetano Scirea e si lasciò poi andare a una corsa sfrenata che il cameraman trascurò ma che non si fa fatica a immaginare analoga a quella del “Bernabeu”. I bianconeri, che avrebbero conquistato di lì a poco l’ennesimo Scudetto, superando per 51 punti a 50 il Torino di Gigi Radice, conquistarono poi nell’infuocato catino del “San Mames” il primo trofeo internazionale della loro storia, contenendo sull’1-2 il passivo impostogli dagli arrembanti baschi e beneficiando quindi della regola del gol segnato in trasferta.

Il 15 giugno 1980, in occasione degli Europei casalinghi, l’Italia di Enzo Bearzot affrontò l’Inghilterra, dopo aver deluso nell’incontro inaugurale con la Spagna, conclusosi sullo 0-0. Una vittoria era necessaria ad entrambe le compagini per non abbandonare anzitempo i sogni di gloria e il successo arrise agli azzurri, in virtù del gol realizzato ancora da Tardelli verso la fine della partita. Dopo aver deviato nella rete di Peter Shilton il cross di Francesco Graziani, Tardelli esplose in una cavalcata del tutto uguale a quella di due anni dopo e il mucchio di compagni che alla fine lo sommerse fu meno imponente solo perché la posta in palio era di molto inferiore.

Vale qui la pena di notare che quella partita, in cui erano in campo ben 8 uomini che avrebbero alzato la Coppa del mondo a Madrid, segnò forse il culmine dell’ambiguità tattica in cui fu costretto Tardelli per lunga parte della sua carriera azzurra e il cui scioglimento non è estraneo al trionfo spagnolo, almeno quanto l’irresistibile vena realizzativa di Paolo Rossi.

Nato a Capanne di Careggine, in Provincia di Lucca, l’esile giocatore per cui il compagno Luciano Spinosi coniò il soprannome di “Schizzo”, a sottolinearne l’elettrico stile e la corsa incessante e nervosa, si impose nel Pisa e fu poi ceduto al Como, dove contribuì alla promozione in serie A dei lariani nella stagione 1974-75. Nell’estate successiva, i maggiori club si posero sulle sue tracce e quando pareva certo il suo passaggio all’Inter, il presidente juventino Giampiero Boniperti se lo aggiudicò con un eclatante pagamento in contanti. Con i torinesi esordì il 27 agosto 1975 e mantenne all’inizio il ruolo di terzino, venendo schierato indifferentemente a destra o a sinistra dal tecnico Carlo Parola, che pure ne apprezzò precocemente le qualità di incursore e incontrista.

Su quelle caratteristiche, fece leva Trapattoni al suo arrivo alla corte degli Agnelli. Per la stagione 1976-77, la Juventus aveva scambiato i declinanti Pietro Anastasi e Fabio Capello con i già anziani ma ancora vigorosi Roberto Boninsegna e Romeo Benetti. Quelle che parvero mosse sbagliate, destinate soltanto a invecchiare la rosa della squadra, si rivelarono invece scelte azzeccatissime. In particolare, la rinuncia a Capello, un regista classico con il passo del metronomo e il fiuto del gol, significava optare per un centrocampo più muscolare che raffinato, nel quale i compiti di costruzione sarebbero stati delegati a Franco Causio, che poteva essere coadiuvato dalla metà campo in su dalla visione di gioco di Roberto Bettega. Per la quadratura del cerchio serviva però qualcuno che sapesse cucire la fase difensiva con quella offensiva, uno capace di svolgere i compiti di rottura e di costituire una minaccia per le difese avversarie con rapidi e ficcanti inserimenti. Gli occhi del Trap non potevano che cadere sul filiforme e giovane toscano, le cui scorribande offensive facevano trasparire una spiccata propensione per il gol, unita a un peculiare moto perpetuo che prometteva di essere sfruttato al meglio nel lavoro di raccordo a centrocampo.

Ne sortì un campione autentico, il primo esempio italiano di calciatore universale. In un periodo nel quale il calcio si identificava con la versatilità e la duttilità imposte dall’Olanda di Johan Cruijff, Tardelli spiccava come la migliore espressione di quella modernità che il movimento calcistico nostrano pareva inseguire vanamente. Non per caso, gli si aprirono presto le porte della nazionale, che Fulvio Bernardini e Bearzot stavano faticosamente ricostruendo sulle macerie della fallimentare partecipazione ai Mondali del ’74. Entrambi, tuttavia, preferirono schierarlo come difensore, seppur concedendogli ampie licenze offensive, soprattutto dopo che fu perso per infortunio Francesco Rocca, il difensore romanista che aveva disputato eccellenti partite in azzurro e che percorreva la fascia con velocissime sgroppate.

L’ambiguità tattica sopravvisse per due anni, giocando Tardelli come interno nella Juventus e come terzino in nazionale. Solo in prossimità dei Mondiali argentini del 1978, cui l’Italia si qualificò estromettendo l’Inghilterra, Bearzot si risolse a schierare Tardelli in mezzo al campo, lasciando l’out difensivo prima ad Aldo Maldera e poi, stabilmente, ad Antonio Cabrini. Lo splendido Mundial sudamericano, tuttavia, non fu lo spartiacque definitivo nell’evoluzione tattica di “Schizzo”, cui “il Vecio” ricorreva quando si trattava di marcare strettamente fuoriclasse difficilmente catalogabili, attaccanti minacciosi che svariavano su tutto il fronte offensivo o che preferivano partire da lontano, impostare e rifinire. Perciò, a Tardelli poteva toccare la custodia di Kevin Keegan o di Michel Platini, solitamente imbavagliati con il consueto dinamismo e con il ricorso a un furente agonismo, che talvolta il bianconero stentava a disciplinare – si ricorda, a questo proposito, il subitaneo tackle con cui atterrò Gianni Rivera appena dopo il fischio d’inizio di un Juventus-Milan del 1978 e che gli costò l’ammonizione più rapida della storia del campionato italiano.

Il girone di qualificazione ai Mondiali spagnoli non fu particolarmente complicato. In vista della prima edizione a 24 squadre, le eliminatorie europee non costituirono un banco di prova probante. L’Italia si qualificò con la Jugoslavia a spese di Danimarca e Grecia, con il solito Lussemburgo a fare da cuscinetto, e l’equivoco sul ruolo di Tardelli fu accantonato ma non risolto. Anzi, il solito, incerto cammino di avvicinamento alla manifestazione iridata e, in particolare, l’amichevole perduta per 2-0 al Parco dei Principi di Parigi, con Platini sugli scudi, rinfocolò i dubbi di Bearzot sull’assetto tattico migliore contro squadre dotate di punte atipiche o di trequartisti con evidenti caratteristiche offensive.

Il dubbio rimase, se è vero che in Spagna, dopo il penoso superamento del turno eliminatorio, il nome di Tardelli circolava fra i possibili incaricati della marcatura di Diego Maradona e Zico, gli alfieri di Argentina e Brasile, che avrebbero dovuto arrestare la titubante marcia azzurra. Come finì è troppo noto per ricordarlo ancora. Giova magari rammentare che a quell’esito contribuì non poco la scelta del ct friulano di spedire Claudio Gentile sulle tracce dei due fuoriclasse sudamericani e di restituire Tardelli a esclusivi o largamente prevalenti compiti di propulsione.

Insieme a un ferreo spirito di squadra e allo stato di grazia che improvvisamente visitò “Pablito” Rossi, la liberazione di Tardelli da eccessivi compiti di contenimento fu la chiave di volta del successo azzurro. Di suo, Tardelli ci aggiunse la spiccata attitudine a dare il meglio nelle occasioni che contano, come dimostrò con la prima rete all’Argentina, che liberò i compagni dall’incantesimo che ne limitava il potenziale, e con il celebre gol della finale.

Che poi entrambi fossero siglati di sinistro, il suo piede meno docile, non fu che un omaggio che Schizzo volle fare a Gigi Riva, il suo idolo dell’infanzia.

Paolo Bruschi