Fabio Grosso, che brillò una sola estate

Il quarto titolo Mondiale dell'Italia deve molto al fugace splendore di un onesto giocatore fattosi campione in terra di Germania


Grosso

Philip Seymour Hoffman vinceva l’Oscar per la sua interpretazione di Truman Capote ma, come si vedrà, questo non sarebbe bastato a placare i suoi demoni interiori; la Cina inaugurava la diga delle Tre Gole, la maggiore opera idroelettrica del mondo; Evo Morales diventava il primo Presidente indio nella storia della Bolivia e cominciava a mantenere le promesse elettorali; un giornale danese pubblicava vignette satiriche su Maometto innescando una crisi diplomatica internazionale; veniva eseguita la condanna a morte di Saddam Hussein per impiccagione e un valente cacciatore uccideva in Baviera l’orso “Bruno”, il primo plantigrado comparso da quelle parti in oltre 170 anni. Negli stessi giorni, entravano nel vivo i Mondiali di calcio, che erano tornati in Germania dopo l’edizione del 1974.

Come noto, vi fu registrato il secondo trionfo azzurro del dopoguerra. Bistrattati dalla stampa di tutto il mondo per essere i rappresentanti del calcio più marcio del pianeta, come attestato dallo scandalo di “calciopoli”, gli uomini di Marcello Lippi trovarono motivazioni speciali per superare tutti gli avversari e alzare la Coppa nel cielo di Berlino il 9 luglio 2006. Motivazioni speciali e protagonisti imprevisti, come il carneade Fabio Grosso, elevatosi al rango di fuoriclasse nel fuoco della maggiore competizione sportiva, dopo un’onesta carriera nella provincia del calcio italiano.

Grosso aveva esordito in nazionale nel 2003 mentre militava nel Perugia ed era poi uscito dal giro azzurro in coincidenza con un calo di forma e la successiva discesa in serie “B”. Prontamente risalito nella massima serie con il Palermo, nella stagione 2005-06 aveva contribuito al fantastico campionato che i siciliani conclusero al quinto posto, loro miglior prestazione di sempre. Alla ricerca di un esterno da affiancare a Gianluca Zambrotta, Lippi lo richiamò in azzurro, mettendolo in ballottaggio con il compagno di squadra Cristian Zaccardo. L’autorete che quest’ultimo segnò nella partita contro gli Stati Uniti (l’unico gol su azione subito dall’Italia in quei Mondiali) e le buone prove di Grosso, convinsero il tecnico viareggino a puntare sul nuovo arrivato, affidandogli la fascia sinistra e spostando Zambrotta sulla destra dello schieramento difensivo.

La scelta si rivelò azzeccata e lo straordinario Mondiale giocato dal terzino rosanero diventò il compendio perfetto di un’avventura cominciata in tono minore e sfociata in un successo imperniato su una difesa ferrea e un’arcigna determinazione. In una squadra spinta dalla trazione posteriore di Gigi Buffon, letteralmente insuperabile, di Marco Materazzi, insolitamente concentrato sul gioco e alieno dai soliti eccessi agonistici, e del capitano Fabio Cannavaro, autore di prestazioni magistrali e capace di infondere sicurezza e tranquillità a tutti i compagni, Grosso entrò in punta di piedi e diventò l’eroe inaspettato delle strette finali.

Negli ottavi di finale contro l’Australia, con l’Italia in dieci per l’affrettata espulsione di Materazzi e i supplementari ormai incombenti, Grosso trovò la forza e l’ardimento per uno sprint sulla fascia, che lo condusse nel cuore dell’area di rigore avversaria, dove una maldestra opposizione di Lucas Neill indusse l’arbitro a fischiare un rigore generoso, forse frutto del senso di colpa per la sbrigativa cacciata di Materazzi. La trasformazione di Francesco Totti sigillò il passaggio del turno e rese giustizia a una squadra che aveva largamente dominato nel primo tempo e controllato gli assalti australiani quando era rimasta in inferiorità numerica.

L'azione che fruttò il rigore contro l'Australia

L'azione che fruttò il rigore contro l'Australia

Dopo lo squillante 3-0 contro l’Ucraina, una vittoria assai più sofferta di quanto il risultato lasci credere, soprattutto per l’assedio che l’Italia respinse, con coraggio e fortuna, all’inizio della ripresa, si parò davanti agli azzurri il rivale più classico, la Germania padrona di casa, da affrontare nel catino del Westfalenstadion di Dortmund. Ne uscì una partita aspra e combattuta, con poche occasioni da rete e che sfociò negli ovvi tempi supplementari. L’Italia vi impresse una leggera supremazia, simboleggiata dai legni colpiti in rapida sequenza da Alberto Gilardino e Zambrotta, mentre i soliti Buffon e Cannavaro chiusero ogni varco agli attacchi tedeschi.

Mentre l’Italia era in campo con quattro attaccanti (Giardino, Totti, Alessandro Del Piero e Vincenzo Iaquinta), nell’evidente intento di evitare la solitamente fatale lotteria dei calci di rigore, fu ancora un difensore a risultare decisivo. A meno di 120 secondi dalla fine, ricevuto un millimetrico assist di Andrea Pirlo nel bel mezzo dei sedici metri avversari, Grosso vestì i panni del centravanti navigato, affilò il sinistro e spedì sul montante lontano una parabola arcuata che eluse le mani protese di Jens Lehman e gonfiò la rete fra la costernazione dei tifosi di casa. Grosso esultò con una corsa emula di quella celeberrima di Marco Tardelli nella finale del 1982 e che, oltre alla vittoria, celebrava almeno due fatti sensazionali.

La corsa di Grosso dopo il gol alla Germania

La corsa di Grosso dopo il gol alla Germania

Per la prima volta nella sua storia, la Germania perdeva una gara ufficiale nello stadio di Dortmund e, per una sorta di nemesi, la sconfitta giungeva in extremis, un modo che proprio la Germania conosce bene, per aver molto spesso risollevato insperatamente nei minuti finali le sorti di gare ormai segnate – basti, a questo proposito, ricordare che il mirabolante 4-3 dell’Atzeca fu innescato dal pareggio siglato da Karl Heinz Schnellinger al 90’ o che la finale di Madrid ’82 fu raggiunta superando ai rigori la Francia, che era stata avanti per 3-1 nell’extra time.

Proprio contro Les Bleus, la finale di Berlino si prolungò fino ai tiri dal dischetto e una volta tanto prevalsero gli azzurri, nonostante la Francia avesse meritato durante i 120’ di gioco. Lippi volle che l’ultimo rigore fosse calciato da Grosso, fidando sulle recenti prove fornite dal palermitano in situazione di estrema pressione psicologica. Grosso si assicurò una rincorsa di media lunghezza, guardò l’arbitro e alzò lo sguardo al cielo. Si morse nervosamente le labbra. Non rivolse gli occhi verso il portiere Fabien Barthez, fissò il pallone già posato e docile sul disco bianco. Lo incrociò con sicurezza nell’angolo alto alla sua destra e si sciolse in una corsa estatica e irrefrenabile. Che nessuno vide.

Il cameraman scelse di spostare l’obiettivo sui compagni che si ammucchiavano ebbri di gioia, alternando le immagini di festa a quelle di sconforto dei francesi. All’improvviso, così come era finito sotto gli abbaglianti, ma volubili, riflettori della celebrità, Fabio Grosso ne uscì. In un lampo.

L’Inter se ne assicurò le prestazioni per il primo campionato orfano della Juventus, retrocessa nella cadetteria dalla sentenza seguita a calciopoli. Vinse così il suo primo Scudetto, ma figurando solo in 23 gare e apportando un contributo per niente decisivo alla solitaria cavalcata dei nerazzurri. Fu quindi lasciato emigrare Oltralpe e con il Lione conquistò un altro titolo nazionale, per finire la carriera alla Juventus, senza infamia e senza lode.

Anche in azzurro la sua stella declinò rapidamente, insieme al rendimento di una squadra appagata dal titolo iridato conquistato in Germania. Di quel successo, Grosso può a buon titolo intestarsi una gran parte del merito, ma come un astro troppo brillante che brucia in gran fretta, di quell’abbagliante luce si persero subito i riflessi.

Paolo Bruschi

Speciale Mondiali 2014