Ai Mondiali del 1998, Il fantasista azzurro vinse la sfida contro il suo passato, ma si fermò di nuovo a pochi passi dal successo
Nino non aver paura di sbagliare un calcio di rigore,
non è mica da questi particolari che si giudica un giocatore,
un giocatore lo vedi dal coraggio, dall'altruismo, dalla fantasia
Francesco De Gregori – “La leva calcistica della classe '68”
Secondo Osvaldo Soriano, il rigore più lungo del mondo fu calciato nel 1958, in un posto sperduto della Patagonia, di fronte a uno stadio vuoto e a un arbitro epilettico, che l’aveva fischiato la settimana precedente prima di venire steso dal pugno di uno dei giocatori ed essere costretto a farlo battere sette giorni dopo, quando si fu ripreso dal fendente e dallo spavento.
Anche Roberto Baggio ne avrebbe di storie da raccontare sui rigori, lui che, per esempio, lasciò a Gigi De Agostini l’esecuzione di quello che la Juventus aveva conquistato in casa della Fiorentina nel 1992. De Agostini lo sbagliò, come capitò al “Divin codino” contro il Brasile: insieme ai precedenti errori di Franco Baresi e Daniele Massaro, quel rigore costò all’Italia la sconfitta dal dischetto nella finale dei Mondiali del 1994.
Quattro anni dopo, per la Coppa del mondo in terra di Francia, il numero 10 era sulle spalle di Alessandro Del Piero, che nei piani dell’allenatore Cesare Maldini doveva costituire l’arma letale degli azzurri. Del Piero aveva appena concluso la sua miglior stagione da che vestiva la maglia bianconera. Con 21 reti in 32 partite aveva grandemente contribuito allo Scudetto della Juventus, guidandola con altri 10 gol in altrettante partite alla terza finale consecutiva di Coppa Campioni. Ad Amsterdam, i torinesi cedettero a sorpresa al Real Madrid e Del Piero rimediò pure uno stiramento alla coscia. L’infortunio muscolare rischiò di costringerlo a saltare i Mondiali, ma dopo lungo rimuginare Maldini lo convocò pur sapendo di non poterlo utilizzare al meglio in occasione dei primi incontri.
La stagione 1997-98 aveva però restituito al massimo splendore proprio Roberto Baggio. Dopo due annate in chiaroscuro al Milan e il rifiuto di Carlo Ancelotti che non lo aveva voluto al Parma, si era accasato al Bologna per rilanciarsi in vista dei Mondiali dell’estate successiva. Operazione riuscita, visto che con 22 marcature aveva stabilito il suo record personale in serie A, meritandosi il biglietto per la Francia. Tuttavia, da quel rigore sbagliato a Pasadena il 17 luglio 1994, Baggio era uscito dall’orbita della nazionale, colpito dall’ostracismo di Arrigo Sacchi, che lo giudicava inadatto ai suoi schemi di giocò, e in quattro anni vi aveva disputato solo cinque partite, le ultime tre richiamato da Maldini a furor di popolo.
L’11 giugno 1998, a Bordeaux, nella partita d’esordio contro il Cile, Baggio fu dunque titolare a fianco del rampante Christian Vieri, cui offrì con una sapiente passaggio di destro il pallone per il vantaggio iniziale. La riscossa dei sudamericani fu veemente e una doppietta di Marcelo Salas ribaltò il punteggio, costringendo l’Italia a un lungo assedio. Maldini potenziò l’attacco con gli emergenti Enrico Chiesa e Filippo Inzaghi, ma l’occasione del pari si presentò al “vecchio” Baggio. A cinque minuti dalla fine, un suo cross fu respinto con il braccio da un difensore cileno e l’arbitro fischiò il rigore. In quel momento, erano in campo diversi specialisti: Gigi Di Biagio, Demetrio Albertini, gli stessi Chiesa e Inzaghi erano abituati a risolvere le pratiche dal dischetto nelle rispettive squadre di club. La responsabilità toccò però al “coniglio bagnato”, come l’avvocato Agnelli aveva irrispettosamente soprannominato Baggio, con ciò volendone stigmatizzare la ridotta propensione alla pugna.
Si sa, i rigori si tirano con la testa. Qualunque calciatore è in grado di collocare opportunamente il pallone dentro uno spazio di quasi venti metri quadrati, benché difeso da un portiere che aspira alla gloria. In linea teorica, non esiste nessuna difficoltà, a patto che la mente del giocatore sia sgombra di pensieri, paure e ricordi. Caso che, nella vita vera, non si dà mai: la memoria del rigore fallito quattro anni prima pesava come un macigno ed è facile immaginare il tumulto di emozioni che scuoteva il campione.
Appena l’arbitro ebbe fischiato la massima punizione, Baggio si raccolse in una breve ma densa riflessione, incoraggiato da Chiesa e protetto dal suo omonimo Dino. Forse il calciatore pensò che sarebbe stato meglio lasciare l’incombenza a qualche compagno, ma l’uomo era conscio di non potersi esimere. Quel segno di gesso bianco in mezzo all’area lo aspettava da quattro anni, solo da lì poteva passare la redenzione tanto attesa. In qualche recesso della sua anima zen, Baggio trovò il coraggio di incamminarsi e di posare il pallone sul dischetto. Prese una rincorsa più breve di quella di Pasadena. Ignorò le maledizioni che gli urlavano gli avversari e abbassò lo sguardo per un ultimo momento di raccoglimento. Sentì lo stomaco rattrappirsi e quasi zavorrargli le gambe, che si avviarono esitanti. Ne uscì un tiro un po’ tremebondo, ma abbastanza angolato da sfuggire alle mani protese del portiere, che pure sfiorarono la palla, facendo scorrere un ultimo brivido lungo la schiena di Baggio, che finalmente si liberò dei fantasmi che lo perseguitavano dal 1994.
Baggio diventò il primo (e finora unico) italiano a segnare in tre Mondiali differenti, e se ne tornò trotterellando verso il centro del campo, accettando le congratulazioni degli altri azzurri, ma rifuggendo da celebrazioni rabbiose come quella che inscenò Stuart Pearce dopo il rigore segnato contro la Spagna agli Europei del 1996, che riscattò l’errore che aveva estromesso l’Inghilterra dai Mondiali del 1990.
L’Italia non fece molta strada: nei quarti di finale, contro i padroni di casa, i rigori le furono fatali per la terza volta consecutiva. Stavolta, sbagliarono Albertini e Di Biagio. Baggio tornò sul dischetto, con più disinvoltura e sicurezza, fece il proprio dovere e zittì il pubblico del Saint-Denis che lo aveva poderosamente fischiato. Nei tempi supplementari una sua splendida volée su servizio di Albertini aveva sibilato accanto al palo di Fabien Barthez, così la Francia salvò la pelle e vinse il suo Mondiale casalingo, superando il Brasile nella finale del Parco dei Principi per 3-0.
Per Roberto Baggio non ci sarebbe stata un’altra occasione. Nel 2002, in vista dei Mondiali nippo-coreani, era in forza al Brescia. Vi aveva trovato un ambiente adatto al suo lungo tramonto, coccolato da un pubblico estasiato dalle insistite prodezze di un uomo che ogni domenica attingeva alla sua fede buddista per venire a patti con un fisico provato da lesioni e logorio. Il nuovo ct azzurro, Giovanni Trapattoni, aveva a disposizione molte soluzioni in attacco, con Vieri, Inzaghi, Vincenzo Montella, Del Piero e Francesco Totti. Baggio, tuttavia, ci credeva. Continuò a crederci anche dopo la rottura del crociato sinistro, il 3 febbraio 2002 nella gara contro il Parma. A 35 anni, non pochi pensavano che quell’ulteriore caduta avrebbe messo fine alla sua carriera. Invece, ad appena 76 giorni dall’operazione al ginocchio, il 21 aprile 2002, contro la sua ex Fiorentina, era di nuovo pronto. Carletto Mazzone lo spedì in campo nella ripresa. Il compagno Pep Guardiola gli si fece incontro e gli cedette la fascia di capitano e, da capitano, Baggio andò due volte in gol. Segnò anche nell’ultima gara di campionato, per un totale di 11 reti in appena 12 partite. Salvò il Brescia dalla serie B, ma nonostante la pressione popolare, Trapattoni non si fidò della sua condizione fisica e lo lasciò a casa.
Assieme al rigore sbagliato di Pasadena, dopo che da solo aveva trascinato l’Italia in finale come prima di lui aveva fatto solo Diego Maradona nel 1986, la mancata convocazione per il quarto Mondiale sintetizzò la sua intera carriera: incredibilmente buona, ma non straordinaria come avrebbe potuto essere.
Paolo Bruschi