La Coppa del mondo del 1994 e gli intrecci con il crimine organizzato costarono la vita al difensore della Colombia
Dalla Galleria Nazionale di Oslo veniva trafugato “L'urlo” di Edvard Munch, sarà ritrovato tre mesi dopo; si suicidava Kurt Cobain e morivano nel GP di San Marino Roland Ratzenberger e Ayrton Senna; agli ordini del sub-comandante Marcos, gli indios del Chiapas insorgevano per denunciare al mondo le loro drammatiche condizioni di vita; Mandela era eletto presidente del Sudafrica e la guerra continuava nella ex Jugoslavia; un milione di tutsi veniva trucidato in Ruanda; Berlusconi vinceva le elezioni politiche con la neonata formazione di Forza Italia, il grido che i tifosi azzurri alzavano al cielo per gli undicesimi Campionati del mondo, che furono inaugurati il 17 giugno 1994 negli Stati Uniti d’America.
Molte gare furono giocate a mezzogiorno e in condizioni climatiche estreme, perché fossero trasmesse dalle tv a ore accettabili per i telespettatori europei. Lo spettacolo ne risentì e molte partite furono un autentico pianto. Per la prima volta nella storia, la finale si concluse a reti inviolate. Il Brasile conquistò il titolo a spese dell’Italia ai calci di rigore. I Mondiali statunitensi, soprattutto, fecero riflettere tutti i giornalisti, che nella forza del racconto ricorrono talvolta a espressioni drammatiche, definendo un episodio di gioco “tragico” o “fatale”. Nel caso di Andrés Escobar, il difensore della Colombia che fu ucciso dopo la competizione iridata per l’autorete che costò alla sua ambiziosa nazionale il passaggio al secondo turno, i cronisti di tutto il pianeta dovettero tornare all’uso letterale di quelle parole.
La Colombia era arrivata negli USA accompagnata da grandi aspettative. Aveva dominato il girone di qualificazione, finendo addirittura con una vittoria per 5-0, a Buenos Aires, contro l’Argentina. Il paese però era attraversato da gravi tensioni sociali. Medellín era in uno stato di emergenza a seguito dell'omicidio di Pablo Escobar, omonimo ma non parente del giocatore Andrés e capo sanguinario del cartello della droga. Pablo Escobar era però amato da molti diseredati dei quartieri poveri, cui offriva occupazioni e alloggi. I campi da calcio che aveva fatto costruire erano stati il teatro dove molte delle stelle che si erano qualificate così facilmente per USA ‘94 avevano calciato i primi palloni.
Escobar possedeva anche la squadra dell’Atlético Nacional di Medellín, attraverso la quale poteva riciclare i proventi del traffico di stupefacenti. Gli alti ingaggi che garantiva ai giocatori avevano incrementato il livello tecnico della squadra, che nel 1989 aveva vinto la Coppa Libertadores.
Responsabile dell'assassinio di centinaia di giudici, politici, poliziotti e di migliaia di membri di gang rivali, Pablo Escobar si era arreso alle autorità colombiane nei primi anni ‘90, per sfuggire la caccia che gli dava il governo di Washington. Chiuso nella Catedral, il carcere alla periferia di Medellín che lui stesso fece edificare e dove fu rinchiuso con tutte le comodità, ricevette anche la visita della nazionale allenata da Francisco Maturana. Nel 1993, fu il portiere René Higuita a pagare per queste “relazioni pericolose”: incarcerato per avere fatto da intermediario in un rapimento e inviso agli USA per aver visitato in carcere il super-criminale, fu escluso dalla rosa che avrebbe disputato i Mondiali nell’estate successiva. Il 2 dicembre 1993, Pablo Escobar fu ucciso al termine di una fuga che aveva intrapreso dopo esser stato informato che le autorità governative intendevano trasferirlo in un’altra prigione.
La morte del boss gettò la città nel caos più assoluto. Delinquenti comuni e appartenenti ai clan della droga, sciolti da ogni vincolo di fedeltà e ansiosi di riposizionarsi nella guerra che seguì il vuoto di potere, misero a ferro e fuoco Medellín. In questo clima, la nazionale partì per gli Stati Uniti, con la remota speranza che il calcio potesse arrestare la violenza.
L’inizio non poté essere più malaugurato. Opposti all’arcigna Romania, una formazione dedita alla difesa ad oltranza e pronta a rapidi contropiedi orchestrati da Gheorghe Hagi e finalizzati dal giovane Florin Raducioiu, i colombiani patirono una secca sconfitta per 3-1. Molti scommettitori del mercato clandestino persero somme ingenti e accusarono la squadra. Il figlio neonato del difensore Luis Herrera era stato rapito dopo la morte di Pablo Escobar e poi riconsegnato, ma dopo la sconfitta contro i rumeni Herrera fu informato che il fratello era morto in un incidente stradale.
Intanto il Mondiale proseguiva, la seconda gara essendo in programma contro i padroni di casa, che la Colombia aveva facilmente battuto in diverse amichevoli precedenti. L’undici di Maturana partì lancia in resta, attaccando da ogni angolo, ma il gol non arrivò. Anzi, su uno dei rari capovolgimenti di fronte, un traversone dalla sinistra fu intercettato da Escobar in scivolata, con il pallone che terminò beffardamente la sua corsa in fondo alla rete difesa Oscar Cordoba. Davanti alla tv, a Medellin, il nipotino di Escobar disse: «Mamma, uccideranno lo zio Andrés per questo».
Nel secondo tempo, gli USA raddoppiarono e la rete allo scadere di Adolfo Valencia non servì ad alleggerire le conseguenze della sconfitta. Il 26 giugno, la vittoria nella terza partita contro la Svizzera non impedì che la Colombia fosse eliminata al primo turno.
Al rientro a Medellin, con la tensione ancora alta, per le conseguenze della morte di Pablo Escobar e per la delusione seguita alla Coppa del mondo, un amico convinse Escobar a scrivere una lettera aperta al quotidiano “El Tiempe”, il cui titolo era “La vita non finisce qui”. Alcuni passi dicevano: «Dobbiamo andare avanti, la vita non può finire qui. Non importa quanto sia difficile. Abbiamo solo due opzioni: o lasciare che la rabbia ci paralizzi e la violenza continui, o mettersela alle spalle e fare il nostro meglio per aiutarsi a vicenda. Cerchiamo di mantenere sempre il rispetto per ognuno».
Il 2 luglio, benché sconsigliato dall’amico Herrera e dall’allenatore Maturana, Escobar decise di uscire di casa per la prima volta dal suo ritorno dagli Stati Uniti. Si recò, con altri amici, al bar “El indio”. Quasi subito fu oggetto di insulti da parte di alcuni avventori, che inveirono contro di lui per l'autorete. Escobar se ne andò, ma il gruppo che lo offendeva lo seguì nel parcheggio, l’alterco salì di livello e comparve una pistola nelle mani degli aggressori. Partirono sei colpi, che raggiunsero il calciatore alla schiena mentre era seduto al volante della sua auto. All’arrivo dell’ambulanza, il medico non poté che constatare la morte di Escobar.
Le prime speculazioni sull’omicidio presero la pista della vendetta di noti gangster che avevano perso molto denaro, scommettendo sulla buona riuscita della Colombia ai Mondiali. La targa dell’auto sulla quale gli assassini si erano dileguati conduceva ai fratelli Gallons, trafficanti di droga che avevano tradito Pablo Escobar e si erano messi in proprio. Altri sostenevano semplicemente che Andrés Escobar era finito in una rissa con dei criminali patentati e che il suo errore era stato di affrontarli a viso aperto.
Più di 100.000 concittadini presenziarono alle esequie di Andrés, in una specie di supplica rivolta alle autorità, affinché riportassero la calma nel paese. Le ultime parole furono pronunciate dal tecnico Francisco Maturana: «La nostra società ha voluto credere che Andrés sia stato ucciso dal calcio, invece Andrés è stato un calciatore ucciso dalla società».
Paolo Bruschi