Jan Tomaszewski, il clown che fece piangere la regina

Il portiere polacco fu all'origine delle memorabili prestazioni della sua nazionale ai Mondiali del 1974


Tomek

Il prezzo del petrolio quadruplicava e gli italiani rispolveravano pattini e biciclette; barricato in un’isola del Pacifico da trent’anni, si arrendeva l’ultimo soldato giapponese; Muhammad Ali atterrava George Foreman nella giungla congolese; la “Rivoluzione dei garofani” cacciava Salazar e instaurava la democrazia in Portogallo, così come succedeva in Grecia che tornava alle elezioni libere, Richard Nixon abbandonava la Casa Bianca per lo scandalo del Watergate e Yasser Arafat parlava all’ONU in rappresentanza del popolo palestinese; le Brigate Rosse rapivano e uccidevano, le bombe neo-fasciste straziavano corpi nelle piazze e sui treni, il referendum sul divorzio confermava la legge Baslini-Fortuna, mentre a Francoforte si aprivano i Mondiali di calcio del 1974, che mettevano in palio il nuovo trofeo creato dallo scultore italiano Silvio Cazzaniga.

Come capitato al Brasile in questo inizio di secolo, la Germania Occidentale organizzò a stretto giro le Olimpiadi (nel 1972) e la Coppa del mondo, quale ricompensa per un paese che aveva archiviato l’infame passato nazista e si era incamminato per il sentiero virtuoso del progresso economico e sociale. E i giocatori di casa completarono l’apoteosi, aggiudicandosi il titolo.

Come avevano fatto 20 anni prima, superarono in finale la squadra ultra-favorita, stavolta l’Olanda di Johan Cruijff, di cui un intero pianeta si era perdutamente innamorato. La bellezza, l’energia, il football visionario degli olandesi avevano a tal punto stregato gli appassionati, che pochi si accorsero che anche la Polonia del carismatico tecnico Kazimierz Górski era infarcita di grandi interpreti e suonava uno spartito magnifico e produttivo.

I polacchi avevano vinto le Olimpiadi due anni prima e avevano a sorpresa guadagnato l’accesso alla fase finale dei Mondiali, cui non erano ammessi dal 1938. L’eroe dell’impresa fu il portiere Jan Tomaszewski, che, nonostante avesse ignominiosamente esordito in nazionale nel 1971, proprio contro la Germania Ovest che aveva agevolmente vinto per 3-1, conquistò il posto da titolare in tempo per difendere la porta della Polonia nel girone di qualificazione, in cui figuravano anche Inghilterra e Galles.

Gli inglesi erano ovviamente gli avversari più ostici. Anzi, erano largamente considerati l’unica scelta per la vittoria nel girone. Ma dopo averli regolati con un perentorio 2-0 a Chorzow, i polacchi resero la visita a Wembley il 17 ottobre 1973: data la situazione di classifica, i “bianchi” di Ramsey dovevano obbligatoriamente vincere, mentre agli ospiti era sufficiente il pareggio.

La stampa inglese caricò la vigilia accusando la Polonia di gioco violento, benché a Chorzow fosse stato un vigoroso tackle di Roy McFarland a causare un grave infortunio al ginocchio di Włodzimierz Lubański, che costò al talentuoso centravanti due anni di carriera. I giornali scrissero che lo stopper Jerzy Gorgoń picchiava come un pugile e che l’ala Grzegorz Lato aveva l’abilità di una formica. Il culmine fu raggiunto dall’istrionico coach Brian Clough, che presentando la gara in televisione definì Tomaszewski un "clown con i guanti".

Consapevole dell’atmosfera elettrica che aleggiava sull’incontro, Górski disse ai suoi uomini: «Potete giocare a calcio vent’anni e vestire la maglia della nazionale mille volte, e nessuno si ricorderà di voi. Stasera, però, con una sola partita, avete la possibilità di scrivere il vostro nome nei libri di storia». L’incitamento si mutò in una profezia realizzata per Tomaszewski: la partita di Wembley non solo segnò la sua carriera, ma anche la sua vita.

Pur con un dito rotto dal terzo minuto di gioco, il “clown” si produsse in una sequenza strepitosa di parate, che frustrarono gli incessanti attacchi inglesi. Si arrese solo a un rigore calciato da Allan Clarke, che però poté solo pareggiare il vantaggio di Jan Domarski, ottenuto con la decisiva complicità di Peter Shilton, il vero pagliaccio fra i portieri in campo.

Una fase di gioco della partita di Wembley

Una fase di gioco della partita di Wembley

L’1-1 qualificò i misconosciuti polacchi e segnò una divaricazione nella traiettoria delle due nazionali. Nello stadio dove solo sette anni prima Bobby Moore aveva ricevuto la Coppa Rimet dalle mani della regina Elisabetta, l’Inghilterra dismise la corona di potenza calcistica, mentre la Polonia avviò un ciclo decennale, grazie a un gruppo di giocatori di grande talento: «La partita di Wembley – ricorda Tomaszewski – cambiò la nostra auto-percezione. Eravamo arrivati a Londra come brutti anatroccoli e ne ripartivamo come splendidi cigni. Fu l’accresciuta convinzione nei nostri mezzi a sostenerci ai Mondiali tedeschi».

Inseriti nel girone eliminatorio con Italia, Argentina e Haiti, la Polonia stupì gli osservatori vincendo con facilità le prime due gare e, già ammessa al secondo turno, si apprestò all’incontro con gli azzurri. Gli uomini di Ferruccio Valcareggi, in gran parte reduci dall’esaltante Mondiale messicano, necessitavano di un pareggio per passare il turno e in tanti speravano nelle ridotte motivazioni degli avversari.

Ma l’Italia era svuotata, lacerata da profonde divisioni intestine, guidata da una dirigenza rissosa e indecisa a tutto. Al Neckarstadion di Stoccarda, ruminò calcio senza costrutto. Invece, la Polonia filava come una locomotiva, ogni trama di gioco pareva iscritta in un disegno complessivo, concepito e diretto dal fine regista Kazimierz Deyna. Le due reti dei biancorossi sembrarono la conclusione obbligata di una manovra semplice ed essenziale. Giacinto Facchetti fu l’ultimo a cedere le armi; azzardò una proiezione offensiva e su un cross di Fabio Capello svettò in area, incornando un tracciante in rotta verso l’angolo basso della porta di Tomaszewski, che sortì dal torpore in cui l’aveva precipitato il dominio dei compagni e negò agli azzurri l’ultima speranza, cui non servì il gol tardivo di Capello: tornarono mestamente a casa, gettando nello sconforto la moltitudine di connazionali che viveva in Germania e lasciando Fiumicino da un’uscita secondaria e con la scorta della polizia.

La Polonia proseguì per il girone finale e continuò a vincere: la Svezia cadde per una rete di Lato e per l’ennesima prodezza di Tomaszewski, che respinse un rigore concesso dall’arbitro per un dubbio fallo di Gorgoń; poi fu il turno della Jugoslavia, superata per 2-1. Fra i polacchi e l’ultimo atto di Monaco di Baviera stava ormai solo la Germania Ovest, cui bastava non perdere per qualificarsi, in virtù della migliore differenza-reti.

I tentativi di asciugare il campo del Waldstadion

I tentativi di asciugare il campo del Waldstadion

La partita era in programma il 3 luglio 1974, a Francoforte, che poche ore prima dell’inizio fu investita da un potente nubifragio. Il campo fu ridotto a un acquitrino. Intervennero i pompieri con pompe e rulli: un rinvio era impensabile, per esigenze commerciali, e perché il terreno pesante prometteva di zavorrare la veloce manovra dei polacchi e agevolare la superiore stazza dei panzer di Helmut Schön. L’arbitro austriaco Erich Linemayr cercò una zolla asciutta, vi fece rimbalzare il pallone e fischiò il calcio d’inizio. I tedeschi non si fidavano e cominciarono guardinghi. La Polonia aveva vinto cinque gare di fila e in quelle tre settimane aveva forse espresso il calcio più redditizio del torneo. Ci vollero un paio di interventi miracolosi di Sepp Maier, che negò il vantaggio a Lato, cui sarebbe comunque toccato il titolo di miglior marcatore del torneo. Nella ripresa un nuovo acquazzone spense la corsa dei polacchi. Holzenbein, come avrebbe poi fatto in finale con un’azione identica, indusse l’arbitro a concedere un rigore, che Uli Hoeness si fece parare dal clown di Breslavia, che diventò il primo estremo difensore a sventare due penalty nello stesso Mondiale. Pochi minuti dopo, tuttavia, fu Gerd Müller a mandare in visibilio il pubblico del Waldstadion. Lo 0-1 relegò la bella Polonia alla finale di consolazione, dove confermò la propria vena formidabile battendo i campioni uscenti del Brasile con l’ennesimo gol di Lato.

Il rigore parato a Hoeness

Il rigore parato a Hoeness

Tomaszewski prese parte anche ai Mondiali del ’78, insieme a molti membri della squadra che aveva sorpreso il mondo quattro anni prima, ma con meno fortuna. Più ancora avvilente fu il suo viale del tramonto e poi la sequela di tentativi per rimanere sotto la costante luce dei riflettori, come si conviene a ogni saltimbanco.

Fedele alla sua maschera eccessiva, si è segnalato negli anni per commenti controversi e deplorevoli, al solo scopo di attirare l’attenzione dei giornali. Da membro del parlamento per il partito conservatore Legge e Giustizia, ha duramente criticato la Federazione polacca per i pessimi risultati della nazionale degli ultimi trent’anni: «Se un bordello va male – disse una volta riferendosi all’immutabilità delle facce ai vertici del calcio polacco – non serve a niente ridipingere le pareti, devi cambiare le ragazze!». Altri commenti censurabili li riservò al tema dell’omosessualità nel calcio, fino a che in occasione degli Europei casalinghi del 2012 dichiarò che avrebbe tifato Germania poiché non si riconosceva nella nazionale del suo paese, a causa dei troppi giocatori naturalizzati.

Uscire di scena e rassegnarsi all’anonimato è sempre la prova più ardua per chi ha sperimentato l’amore delle folle. Nel caso di Tomaszewski c’è in più un elemento caratteriale venato di sciroccata follia. Con tono paterno, il vecchio Górski ne ridimensionò così le usuali intemperanze verbali: «Alla fine dei conti, Tomaszewski era soprattutto un grande portiere e tutti sappiamo che i portieri sono un po’ diversi dagli altri giocatori».

Paolo Bruschi