Ai Mondiali cileni del 1962, il capitano cecoslovacco guidò i compagni fino alla finale contro l'invincibile Brasile di Garrincha e Amarildo
Marilyn Monroe gettava nella disperazione milioni di fan e molti di loro accorrevano a comprare “Love me do”, il primo disco dei Beatles; Frank Morris evadeva dal supercarcere di Alcatraz, ispirando il famoso film con Clint Eastwood; Sean Connery vestiva i panni di James Bond nella pellicola inaugurale della saga di Ian Fleming; l’Algeria otteneva l’indipendenza, il criminale nazista Adolf Eichmann veniva giustiziato in Israele, la crisi dei missili fra USA e URSS spingeva il pianeta sull’orlo dell’ecatombe nucleare, precipitava in circostanze oscure l’aereo con a bordo il presidente dell’Eni Enrico Mattei e la messa in orbita dei satelliti per le telecomunicazioni consentiva la trasmissione in mondovisione dei Campionati del mondo del 1962, che si disputavano nelle sperdute lande cilene.
Benché appena due anni prima, il Grande terremoto di Valdivia, il più potente mai registrato dagli strumenti di misurazione (9,5 gradi sulla scala Richter), avesse colpito una vasta area a sud di Santiago, provocando migliaia di vittime e danni materiali incalcolabili, il comitato organizzatore rifiutò di cedere alla fatalità e rimise in piedi gli stadi distrutti a tempo di record. Lo straordinario sforzo produttivo non valse però a cancellare le molte ferite aperte di un paese attraversato da profonde disuguaglianze economiche e sociali, in cui prosperavano la corruzione, l’analfabetismo, la miseria e la denutrizione. Lo stato di grave arretratezza fu sottolineato in varie corrispondenze di giornalisti italiani, fra cui Antonio Ghirelli del “Corriere della sera”, animando l’indignazione della nazione ospitante ed esacerbando l’attesa della gara che Italia e Cile avrebbero dovuto disputare, in quanto inseriti nel medesimo girone preliminare. Circondati da una patente atmosfera di ostilità e penalizzati dalla partigianeria dell’arbitro inglese Ken Aston, gli azzurri, in cui militavano Omar Sivori e Humberto Maschio, oriundi argentini e perciò invisi al pubblico di casa, esibirono nervi fragilissimi e capitolarono per 2-0 dopo esser rimasti in 9 uomini per le espulsioni di Giorgio Ferrini e Mario David. Quando la cosiddetta “Battaglia di Santiago”, più un match di pugilato che un incontro di calcio, fu trasmessa dalla BBC, il conduttore David Coleman l’annunciò con queste parole: «Buona sera, la partita che state per vedere è la più stupida, terribile, disgustosa e vergognosa esibizione nella storia del gioco».
L’Italia fu eliminata. Invece, grazie al calore del pubblico e principalmente per la benevolenza dei direttori di gara, il Cile proseguì il cammino fino a conquistare un clamoroso terzo posto, grazie all’1-0 inflitto nella “finalina” alla Jugoslavia.
Tutto il Mondiale fu segnato da tattiche difensivistiche e intimidatorie. Per la prima volta, la media-reti scese sotto le tre per partita e numerosi furono gli infortuni. Il russo Eduard Dubinski ebbe una gamba rotta per una feroce entrata dello slavo Muhamed Mujic, lo svizzero Norbert Eschmann subì la stessa sorte in seguito a un robusto tackle del tedesco Szymaniak e il grande portiere sovietico Lev Yashin fu colpito alla testa da un calcio nel quarto di finale contro il Cile. Questo quadro di violenza generalizzata, cui si arrese anche la stella brasiliana Garrincha, espulso nella semifinale contro i cileni per un fallo di reazione dovuto alle incessanti brutalità subite dagli avversari, conobbe rare eccezioni. La più celebre vide protagonista il capitano cecoslovacco Josef Masopust.
Inserita in un classico girone di ferro, con Brasile, Spagna e Messico, la nazionale boema vinse a sorpresa la prima gara contro gli iberici e costrinse allo 0-0 la favorita Seleção, in cui Pelé era oramai diventato il più grande giocatore del mondo. Proprio “O Rei” portò i pericoli maggiori alla porta di Viliam Schrojf, che deviò sul palo la sua conclusione più insidiosa. Nell’azione, tuttavia, l’asso carioca si procurò una lesione. Zoppicante, si portò a bordo campo, dove il massaggiatore Mário Américo non poté che constatare un grave strappo inguinale. In un periodo nel quale le sostituzioni non erano ancora consentite, l’allenatore Aymoré Moreira spostò Pelé all’ala destra, diminuendo il suo coinvolgimento nel gioco. Pochi minuti dopo, Pelé ricevette il pallone e provò a scattare in uno dei sui classici dribbling, ma il danno muscolare era troppo profondo. Il pallone rimase sull’erba, immobile fra lui e Masopust, che evitava di intervenire sull’avversario menomato. Pelé tentò una finta, ma cadde a terra. La palla era sempre ferma, in mezzo ai due rivali, finché Masopust cavallerescamente la spedì a lato. Fu l’ultima partita della “perla nera” in quei Mondiali, mentre Masopust guidò i compagni fino all’insperato atto conclusivo.
La Cecoslovacchia del 1962 era una squadra compatta e solidamente ancorata a un’espressione di gioco sparagnina e utilitaristica, nel quale Masopust svolgeva un impagabile ruolo di cerniera fra la difesa e l’attacco. Presidiando il centrocampo grazie a un modernissimo dinamismo e a un’acuta visione di gioco, il capitano primeggiava nelle due fasi dell’interdizione e della ricostruzione. Dotato di straordinarie qualità di palleggio, come tutti gli epigoni della lunga tradizione danubiana, coniugava la sorveglianza dell’avversario più minaccioso con l’orchestrazione delle manovre di contropiede, che sovente innescava con improvvisi lanci in verticale al termine di prolungate serie di passaggi preparatori.
Nato nel 1931 a Most, nei Sudeti, che sarebbero stati annessi alla Germania nel 1938, Masopust cominciò a giocare a 18 anni nel Teplice, fino a che non si trasferì all’ATK Praga, il club dell’esercito. Come stava accadendo nello stesso periodo in Ungheria e negli altri paesi finiti sotto il controllo dei partiti comunisti fedeli a Mosca, il Ministero della Difesa decise di irrobustire la sua squadra di calcio e fu stabilito che l’undici dell’esercito scegliesse e acquisisse i migliori giocatori dalle altre squadre della massima serie. Nacque così il formidabile Dukla Praga, per l’occasione ribattezzato in onore di un villaggio slovacco che aveva resistito eroicamente a un assedio nazista durante la II Guerra mondiale. Guidato da Masopust, il Dukla vinse 8 titoli nazionali fra gli anni ’50 e l’inizio degli anni ’60, scontrandosi nelle coppe europee con le migliori squadre occidentali, contro le quali tuttavia non riuscì mai a prevalere. Nella Coppa Rimet del 1962, invece, la Cecoslovacchia rappresentò il continente europeo al massimo livello, contendendo ai formidabili brasiliani la vittoria finale.
Dopo aver superato sorprendentemente il primo turno, uscì vittoriosa dal quarto di tabellone occupato dalle formazioni dell’Europa orientale. Prima l’Ungheria dell’astro nascente Florian Albert e poi la Jugoslavia di Dragoslav Šekularac si inchinarono alla tattica difensivistica della Cecoslovacchia, che fece leva soprattutto sulle straordinarie prodezze dell’estremo Schrojf, poi insignito del riconoscimento di miglior portiere del torneo. Ad attendere in finale i cecoslovacchi c’era il Brasile, che aveva brillantemente sostituito Pelé con lo sconosciuto Amarildo, capace nell’ultima partita della prima fase di realizzare la doppietta che estromise la Spagna, salvando i verdeoro da una clamorosa eliminazione.
Alle 14.30 del 17 giugno 1962, Masopust scambiò i gagliardetti con il carioca Mauro e la finale ebbe inizio. Dopo appena un quarto d’ora, il capitano boemo si produsse in una delle sue classiche incursioni centrali e, ricevuto un invito filtrante dal compagno Scherer, trafisse il grande Gilmar anticipandone l’uscita. Poteva essere la ripetizione del copione già visto tante volte durante la manifestazione, con la Cecoslovacchia capace di addormentare la partita e capitalizzare il risicato vantaggio. Invece, dopo appena due minuti, Amarildo scartò un paio di avversari e giunse sul fondo, da dove scoccò un improbabile sinistro che concluse la sua traiettoria in rete, con l’evidente collaborazione di un disattento Schrojf. Le squadre andarono al riposo sul risultato di parità e nella ripresa i sudamericani fecero valere il maggiore tasso tecnico complessivo, passando in vantaggio con il difensore Zito, servito dallo scatenato Amarildo, e arrotondando in chiusura con il centravanti Vavà, che divenne il primo calciatore a segnare in due finali mondiali.
La carriera internazionale di Masopust si chiuse di fatto con i Mondiali cileni. L’aver guidato la piccola Cecoslovacchia fino alla contesa per il titolo gli valse il successo nel Pallone d’oro, primo atleta dell’Est ad aggiudicarsi il prestigioso premio di “France Football”, mentre la finalissima raggiunta dalla compagine boema fu l’ultima per una nazionale dell’Europa dell’Est. Nelle sette edizioni fino ad allora giocate, per quattro volte il calcio d’oltre-cortina aveva espresso almeno una delle due finaliste: dopo di allora non sarebbe più successo, a dimostrazione di un’eclissi tecnico-tattica che dura ancora oggi.
Paolo Bruschi