Fritz Walter, che giocò due partite della vita

Lo storico capitano della Germania sopravvisse alla guerra grazie al calcio e poi fu protagonista del "miracolo di Berna": racconta tutto in questa intervista immaginaria


Walter

Nell’opulenta e invidiata Germania, come hanno rivelato le ultime statistiche, l’economia ha ripreso a galoppare. Visto dall’Italia, che invece si intristisce nell’ennesimo segno meno, il sistema produttivo germanico pare cresciuto al punto da raggiungere vette paradisiache. Da lì, approfittando di un rigenerante soggiorno teutonico, è stato quasi automatico bussare alle porte dell’Eden e chiedere un’intervista alla buon anima di Friedrich "Fritz" Walter, lo storico capitano della Deutsche Nationalmannschaft, che la federazione tedesca indicò come il miglior calciatore della sua storia in occasione del 50° anniversario della UEFA.

Placidamente assiso su una nuvoletta soffice e vaporosa, bianca come la maglia della nazionale che vestì in vita per 61 volte dal 1940 al 1958, Walter resta stupito da questa visita inattesa: «Se è venuto a chiedermi un commento sulla scelta della federazione, le dico subito che non credo molto a queste graduatorie. Parafrasando il vostro Gianni Clerici, non esiste il calciatore più forte di tutti i tempi, così come non si possono mettere in fila Leonardo da Vinci e Picasso. Nella fattispecie, io avevo appena concluso il mio transito terreno (Walter è morto nel 2002 – n.d.r.) e credo che gli alti papaveri abbiano voluto onorare la mia memoria con quel riconoscimento. Sono peraltro contento che altri, come Franz Beckenbauer, Uwe Seeler o Lothar Matthäus, non abbiano mostrato invidia nei miei confronti».

Domanda – Anzitutto, Herr Walter, desidero ringraziarla per avermi dedicato un po’ della sua eternità; in realtà, sono venuto a chiederle una rievocazione dei Mondiali del 1958, gli ultimi da lei giocati…

Risposta - (Walter ha un moto di stizza e quasi gli cade l’aureola) Che richiesta bizzarra! Dovrebbe invece chiedermi del “miracolo di Berna”, visto che siamo in paradiso, e soprattutto perché i Mondiali del 1954 li ho vinti!

D – Ha ragione, Herr Walter, ma la Coppa Rimet del 1954 è già stata trattata, saccheggiando la biografia del suo celebre antagonista Ferenc Puskas

R – E lei si fida delle falsità che ha scritto quell’ungherese presuntuoso?

D – “Punti di vista”, vorrà dire?

R – Jawohl, genau! Sa, da che sono diventato onnisciente parlo tutte le lingue, ma ogni tanto il mio italiano vacilla e quel Puskas mi fa andare il sangue al cervello. Lo sa che abbiamo rigiocato spesso quella sfida, qui, sui campi elisi, e ci battono sempre. È pur vero che un paio dei nostri si godono ancora la vita terrena, ma insomma, perdere ogni volta non fa piacere…

D – Non si agiti, Herr Walter, non si addice al suo stato nirvanico. Non vuole proprio raccontarmi niente dei Mondiali di Svezia?

R – Se proprio insiste, le dirò che l’edizione del ’58 fu il più grande spreco di petrolio prima dell’invenzione del SUV! Mi riferisco beninteso al carburante che servì alle varie nazionali per viaggiare fino nel nord Europa, del tutto improduttivamente, visto che ai nastri di partenza era schierato l'imbattibile Brasile del trio Didì-Vava-Pelé, cui doveva aggiungersi l’imprendibile Garrincha, con la difesa comandata da Nilton Santos e da un portiere vero come Gilmar.

D – Eppure, non erano partiti col vento in poppa...

Lei forse ignora che il Brasile fu l’ultimo stato occidentale ad abolire la schiavitù nel 1888 e anche dopo, per lungo tempo, la minoranza di colore fu discriminata. Forse preda di questo retaggio culturale, l’allenatore Vicente Feola, un oriundo italiano tendente all’obesità, resistette alle pressioni dello spogliatoio che gli chiedevano maggior coraggio nello schierare le sue stelle nere e meticcie. Dopo un inizio non entusiasmante, “el Gordo” si decise a lanciare Garrincha e Pelé, cui fece posto quel José Altafini che in Italia conoscete bene, e subito cominciarono a giocare come… quassù! Non c’è altro, e faccio grazia ai suoi quattro lettori della manfrina intellettualistica di elencare i principali avvenimenti storici del 1958, un’idea che ha spudoratamente copiato dallo scrittore Edoardo Galeano.

D – A parte quest’ultima cattiveria gratuita, non vuole commentare la vostra difesa del titolo?

R – Con piacere! Vincemmo il girone eliminatorio, sistemando quei vanitosi degli argentini, che erano tornati a disputare la Rimet pensando di dominare, e resistendo alla classica Cecoslovacchia e all’Irlanda del Nord (i nord-irlandesi avevano sbattuto fuori proprio l’Italia nelle qualificazioni, infliggendole la sola eliminazione prima della fase finale – n.d.r.). Anzi, fu allora che prese corpo la proverbiale caratteristica della nostra squadra, la sua irriducibilità e la sua capacità di resistere alle avversità e di uscire alla distanza: tutti gli avversari che ho appena citato erano infatti passati in vantaggio e non mancammo mai di rimontarli, come del resto avevamo già fatto nella finale contro l’Ungheria. Poi fummo ancora capaci di superare la Jugoslavia e cedemmo soltanto ai padroni di casa della Svezia, al solito agevolati – per così dire – dal contesto ambientale. Fui azzoppato da uno di loro e quello fu il mio ultimo gettone di presenza, alla bella età di 38 anni. Nella finale di consolazione, i compagni capitolarono di fronte a una Francia in stato di grazia, trascinata dal suo irripetibile cannoniere, quel Just Fontaine che segnò addirittura 13 gol, fissando un record che resisterà per sempre, come è scritto sui libri del tempo cui ora ho accesso. Insomma, una difesa del titolo più che onorevole: a quattro anni di distanza, dimostrammo che la vittoria del 1954 non era stata frutto del caso, della fortuna o, peggio, di manovre illegali, come tanti si ostinano a insinuare ancora oggi.

D – Capisco che proprio non riesce a non parlare del “miracolo di Berna”. Allora, avanti, da dove vuole cominciare?

R – Oh, Wunderbar! Anzitutto, per spiegare bene la portata del nostro successo ai suoi tre lettori (uno l’ha senz’altro perso dopo questa trovata bislacca dell’intervista immaginaria!), è necessario partire dal contesto storico-politico. Dopo la fine della guerra, la Germania era divisa in quattro settori, occupati dalle potenze vincitrici; subivamo il bando internazionale anche nello sport (alla Germania non fu consentito di prendere parte né alle Olimpiadi di Londra del 1948, né ai Mondiali brasiliani del 1950 – n.d.r.) ed erano vietati gli assembramenti di persone all’aperto. Figurarsi se potevamo pensare al pallone, e infatti per tutti gli anni ’50 resistettero cinque diversi tornei regionali, con i giocatori che avevano uno status semi-professionistico. La Bundesliga, ossia il campionato unico nazionale, sarebbe sorto solo nella stagione 1963-64. In pratica, “Germania anno zero” era vero anche nel calcio.

D – E qual era la condizione di voi calciatori?

R – In realtà, avevamo goduto di qualche privilegio durante la guerra. Io esordii in nazionale nel 1940, segnando tre gol nella vittoria per 9-3 contro la Romania. L’allenatore Sepp Herberger era convinto di aver allestito per la prima volta una rappresentativa di alto livello e quando il conflitto mondiale si inasprì, tentò ogni strada per evitarci le destinazioni più pericolose, ma non sempre fu possibile. Adolf Urban, per esempio, uno dei nostri talenti più fulgidi, fece parte delle divisioni poste sotto il comando del maresciallo Von Paulus e partì per il fronte russo, dove morì nel maggio 1943, fra la costernazione dei commilitoni che a decine donarono il sangue per salvargli la vita. La notizia della sua morte fu annunciata anche dalla BBC, che fece un favore ai gerarchi nazisti, i quali poterono dimostrare alla popolazione che in tempi di “guerra totale” anche gli idoli degli stadi davano il sangue per la patria. Mio fratello minore Ottmar, anche lui in campo nella finale di Berna, fu tra i 29 superstiti tratti in salvo da un battello tedesco, dopo che la loro nave si era beccata diversi siluri nella pancia, a largo di Cherbourg. Ottmar arrivò in ospedale con il corpo martoriato dalle schegge e fu salvato dopo una lunga operazione. Tornò a casa nel 1946, dopo due anni di prigionia in un campo anglo-americano.

D – A lei andò meglio?

R – Io fui arruolato nella Wehrmacht nel 1942 e assegnato all’aviazione, con compiti relativamente tranquilli. Girai le isole del Mediterraneo e contrassi la malaria. Fui trattato in tempo e mi salvai, l’unico strascico essendo una certa vulnerabilità ai dolori e agli affaticamenti muscolari, che curiosamente mi colpivano soltanto con il sole e il caldo. Perciò, quando ripresi a giocare, davo il meglio con il brutto tempo e questa insolita predilezione si diffuse al punto che è divenuta proverbiale l’espressione “Il tempo di Fritz Walter” per indicare la pioggia scrosciante.

D – Quando tornò a casa?

R – Calma, la malaria non fu la sola complicazione del mio passaggio sotto le armi. Con la Wehrmacht soverchiata dagli Alleati, la mia unità fu catturata dagli anglo-americani, ma subito posta sotto la responsabilità dell’Armata Rossa. Come altri 40.000 camerati, fui destinato ai gulag della Siberia, per un viaggio senza ritorno, come avremmo imparato a nostre spese: se sopravvissi, lo devo al calcio!

D – Cosa accadde?

R – Deve sapere che anche dopo lo scoppio del conflitto, mentre invadevamo mezza Europa, la nazionale tedesca continuò la sua attività, fino a tutto il 1942 (a causa del bando seguito alla disfatta, la Germania non avrebbe più giocato incontri internazionali prima del 1951 – n.d.r.). Erano più che altro incontri propagandistici e di ridotto valore tecnico, contro le rappresentative di paesi amici oppure occupati, generalmente composte di giocatori impauriti. Il 3 maggio 1942, fummo opposti proprio all’Ungheria, a Budapest. Dopo il primo tempo, perdevamo 3-1.

D – Immagino che la solita tensione che l’assaliva prima e durante le gare fosse schizzata alle stelle: non sarebbe stato molto salutare presentare al regime una sconfitta contro un paese satellite…

R – Proprio così! Nell’intervallo, Herberger dovette usare tutta la sua arte oratoria per tranquillizzare me e i compagni più preoccupati. Fu convincente al punto che nella ripresa recuperammo, fino a vincere per 5-3, grazie anche alle mie due reti. In verità, non posso escludere che la clamorosa rimonta fosse dipesa anche da qualche minaccia più o meno velata fatta giungere alle orecchie dei giocatori ungheresi…

D – Questa notazione le fa onore, Herr Walter, ma non ci ha ancora detto perché il calcio la salvò.

R – No, ma la premessa era necessaria. Mentre il convoglio era diretto in Siberia, facemmo tappa in Ucraina, sostando in un campo di smistamento. La vaga ma opprimente sensazione di essere in cammino verso l’inferno, non mi impedì di avvicinarmi a un gruppo di guardie e prigionieri che avevano improvvisato una partitella, con un pallone sbucato da chissà dove. Quando rotolò verso di me, lo calciai indietro e fu evidente che possedevo stile e tecnica. Fui invitato a giocare e non me lo feci ripetere due volte. Dopo qualche decina di minuti, mi sentì battere sulla spalla e una voce mi disse: «Io lei la conosco!». Mi si gelò il sangue, invece fu la benedizione del cielo: era un ungherese, che aveva assistito a Budapest a quel match del 1942 e voleva complimentarsi con me. Il giorno dopo, il mio nome non figurava più nell’elenco di quelli che sarebbero stati deportati nelle steppe russe. Alla fine del 1945, ero già tornato a casa, a Kaiserslautern.

D – Ma veniamo ai Mondiali di Svizzera e al primo incontro con l’Ungheria, quando perdeste 8-3 e Puskas rimediò la frattura al piede.

R – Avevamo già battuto facilmente la Turchia e quindi era su di loro che dovevamo fare la nostra corsa. Puskas e compagni erano in forma smagliante ed Herberger pensò di far riposare i titolari, anche allo scopo di alimentare l’incertezza fra gli osservatori circa la nostra reale consistenza. Quanto all’infortunio di Puskas, si è molto romanzato sulla cattiveria di Werner Liebrich, si è detto che fosse un killer travestito da terzino e che fece seguire il suo tackle da un deliberata “passeggiata” sulla caviglia del magiaro. In verità, Liebrich non era uno stinco di santo, praticava un gioco molto fisico e certamente non indietreggiava se c’era da mollare qualche pedata ben assestata, ma nemmeno il vostro celebrato Claudio Gentile usò i guanti bianchi per limitare Maradona e Zico nel 1982. Infine, io ero lì vicino e vidi chiaramente che Puskas cadde male, scaricando tutto il peso del corpo sul piede appena colpito e peggiorando gli effetti della carica subita.

D – Dopo il vittorioso spareggio contro i turchi, beneficiaste di un tabellone favorevole.

R – Non si può negare che la FIFA prese un abbaglio nel dividere la griglia degli scontri a eliminazione diretta fra le prime classificate dei gironi eliminatori da una parte e le seconde classificate dall’altra. Ne risultò un tabellone assai sbilanciato, con la favorita Ungheria, oltre a Uruguay, Brasile e Inghilterra dalla stessa parte. Tuttavia, non si rende giustizia a una ricostruzione oggettiva dei fatti se si sottovaluta eccessivamente il valore tecnico del nostro quarto di finale contro la Jugoslavia. Le rammento che gli slavi avevano conteso ai “meravigliosi magiari” l’oro alle Olimpiadi del 1952, arrendendosi alle reti di Puskas e Czibor, che giunsero solo al 70’ e a un paio di minuti dalla fine, dopo una gara per lunghi tratti assai equilibrata. Anche l’Austria, che seppellimmo in semifinale per 6-1, non era poi una formazione da buttare.

D – Tuttavia, l’Ungheria dovette impiegare molte più energie psico-fisiche per venire a capo di Brasile e Uruguay; arrivarono in finale assai più affaticati.

R – Certamente, più stanchi e più esauriti, ma anche troppo sicuri di vincere. Benché non avessimo niente da perdere e i tifosi fossero già soddisfatti di vederci in finale, anche noi sentivamo una grande pressione. Con lungimiranza, Herberger mi aveva messo in stanza con quel matto di Helmut Rahn e le sue continue pagliacciate mi preservarono dalle usuali ansie pre-partita. La notte prima della gara, riuscii a dormire, mentre gli ungheresi furono infastiditi da una fiera che si tenne fino a notte fonda proprio di fronte al loro albergo. Quando mi svegliai, purtroppo, splendeva un bel sole e si annunciava una giornata molto calda: chiusi le tende e mi ficcai sotto le coperte, quello non era certo il “tempo di Fritz Walter”! Invece, mentre andavamo allo stadio, il cielo si coprì, nuvole gravide di pioggia si profilarono all’orizzonte e venne giù un gran diluvio. I ragazzi, sul pullman, urlarono di gioia: sapevano che il loro capitano sarebbe stato nelle condizioni ideali per esprimersi al massimo.

D – Eppure, dopo otto minuti, eravate già sotto di due reti: cosa cambiò il corso della partita?

R – Non serve una laurea in psicologia per concludere che quel doppio vantaggio ebbe un effetto sedativo sull’Ungheria, che fu confermata nella sua presunzione e calò di tensione. Su un innocuo traversone, Max Morlock approfittò di un loro pasticcio difensivo e su un successivo corner Rahn fu pronto a mettere in gol dopo un’uscita a vuoto di Grosics. Sul 2-2, come tutti hanno detto, lo scenario mutò radicalmente. Loro diventarono nervosi e cominciarono a litigare; molti erano arrabbiati con Puskas, che aveva voluto essere in campo a tutti i costi, ma con il piede fratturato era praticamente nullo. Poi, la fortuna ci dette una mano; due volte colpirono i pali, in altre occasioni il portiere Turek compì delle autentiche prodezze.

D – Nel secondo tempo, veniste fuori alla distanza…

R – Loro cominciarono ad avvertire la fatica dei supplementari con l’Uruguay e il terreno zuppo di pioggia non favorì il loro fraseggio breve e insistito. Al contrario, noi eravamo a nostro agio. Adi Dassler, l’artigiano bavarese che aveva fondato l’Adidas, fedele al detto tedesco secondo cui non esiste brutto tempo ma solo abbigliamento inadatto, aveva messo a punto delle rivoluzionarie scarpe da gioco, con tacchetti rimuovibili, che potevano essere più o meno avvitati a seconda delle condizioni dell'erba: quando il campo divenne un pantano, le sue scarpe ci dettero un vantaggio innegabile e in chiusura Rahn trovò il varco giusto per il gol decisivo. Al termine, anche Puskas riconobbe che avevamo meritato e venne a complimentarsi.

Walter ha appena ritirato la Coppa Rimet e Puskas va a congratularsi

Walter ha appena ritirato la Coppa Rimet e Puskas va a congratularsi

D – Il cronista Herbert Zimmermann raccontò la rete con passone sudamericana…

R – È vero, quel gol risuonò contemporaneamente in milioni di case, ponendo simbolicamente fine al decennio di dolore, ristrettezze e umiliazione, che aveva fatto seguito alla disfatta del nazismo. Secondo lo storico Joachim Fest, il 4 luglio 1954 è la vera data di fondazione della Repubblica federale, il giorno che sprigionò le energie e il senso di solidarietà indispensabili per costruire un nuovo paese. Il boom economico che spinse la Germania sul sentiero della prosperità dipese più dall’ancora solida base industriale e dagli aiuti del Piano Marshall che dal nostro successo, ma il “miracolo di Berna” fornì quell’iniezione di fiducia e auto-stima di cui il prostrato e mortificato popolo tedesco aveva urgente bisogno. Al ritorno in patria, il nostro treno fu rallentato e fermato da migliaia di appassionati che accorrevano sui binari per festeggiare e per ringraziarci di quei momenti di felicità. Quell’innocua ed euforica esplosione di gioia dimostrò a noi stessi, e alle potenze vincitrici che ci tenevano sotto tutela, che l’auto-stima germanica poteva esprimersi a livelli compatibili con il mantenimento della legalità istituzionale e senza degenerare in forme di nazionalismo minaccioso per la comunità internazionale.

D – Molto interessante, Herr Walter, ma come risponde a quelli che sostengono che la “rinascita tedesca” fu agevolata da sleali additivi chimici?

R – Si riferisce alla ricorrente teoria del doping di Stato, delle iniezioni di anfetamina dimostrate dai molti casi di itterizia ed epatite che colpirono i giocatori nei mesi successivi e dai mediocri risultati della nazionale nelle amichevoli del periodo seguente la Coppa del mondo? Tutte storie vecchie e logore. Io c’ero e posso assicurare che le uniche punture che ricevemmo ci iniettarono nient’altro che vitamina C, forse un potente stimolante per chi come noi era abituato ai regimi alimentari ipocalorici tipici dei periodi di penuria, ma non una droga. Quanto alle molte sconfitte che seguirono la vittoria del titolo iridato, non devo certo essere io a insegnare a voi italiani quali sono le partite da vincere, considerato il vostro atavico disinteresse per la gare senza punti in palio!

D – Prima di salutarci, vuole dire qualcosa ai suoi eredi che si accingono a disputare da favoriti il Mondiale brasiliano?

R – Auguro loro di riportare in Germania un titolo che manca ormai da 24 anni e spero che riusciremo a evitare l’ennesimo duello con gli azzurri. Mia moglie Italia Bortoluzzi minaccia ogni volta lo sciopero culinario e, terrorizzato dalla prospettiva di tornare a un menu fatto di würstel e kartoffeln, mi acconcio a qualche pratica illecita, orientando – per così dire - gli esiti dall’alto. Avevate mai avuto il sospetto che la vostra serie positiva contro la Deutsche Mannschaft dipendesse da qualche “aiutino” ultraterreno?

Paolo Bruschi