Katharine Hepburn vinceva il suo primo Oscar e Luigi Pirandello veniva insignito del premio Nobel, negli Stati Uniti Walt Disney creava il personaggio di “Paperino”, dopo la “Notte dei lunghi coltelli” Hitler si autoproclamava Fuhrer del Terzo Reich e Mussolini lo incontrava per la prima volta a Venezia. Intanto, a Roma, il 27 maggio 1934, si aprivano i secondi Campionati del mondo.
Con una ben coordinata azione diplomatica, l’Italia fascista se ne era aggiudicata l’organizzazione a scapito della Svezia, intravedendo nel gioco che aveva sedotto le masse di tutto il pianeta un potente strumento di propaganda e un mezzo per cementare l’unità del paese.
La partecipazione alla seconda edizione della Coppa Rimet fu più cospicua di quella di quattro anni prima. Da svariate partite di qualificazione disputatesi in giro per il mondo, uscirono le 16 prescelte. L’Inghilterra restò nella sua splendida auto-segregazione e i detentori dell’Uruguay si rifiutarono di affrontare il viaggio per ripicca contro lo stesso trattamento ricevuto dagli europei nel 1930. Fra le formazioni favorite, oltre ai padroni di casa, figurava l’Austria allenata da Hugo Meisl, che dall’inizio del decennio aveva disputato 31 partite perdendone solo tre e guadagnandosi il titolo di Wunderteam, la squadra delle meraviglie. Il tecnico austriaco aveva portato al pieno sviluppo la cosiddetta “scuola danubiana”, seguita anche da Cecoslovacchia e Ungheria, che non a caso contesero all’Italia di Vittorio Pozzo il massimo trofeo nel 1934 e nel 1938: manovra lenta e ragionata, passaggi frequenti e rasoterra fra tutti i giocatori della squadra.
L’alfiere dei biancorossi era Matthias Sindelar, nato “Matej” nel 1903, in un paesino della Moravia che apparteneva all’Impero austro-ungarico. Due anni dopo, per sfuggire la miseria, la famiglia si trasferì a Vienna, dove il piccolo e filiforme “Sindi” si appassionò al calcio, esordendo nel massimo campionato austriaco all’età di 18 anni. Per l’esile corporatura e la classe cristallina fu soprannominato “Cartavelina”, ma dimostrò subito tenacia non inferiore alla raffinatezza. Nel 1925 una caduta in piscina lo costrinse all’asportazione del menisco, un’operazione che a quei tempi consigliava ai giocatori di trovarsi un lavoro. Grazie a una dura terapia riabilitativa, Sindelar divenne il primo calciatore a tornare a giocare dopo un simile intervento chirurgico, unico cedimento al bisturi rimanendo una stretta fasciatura che da lì in avanti il biondo centravanti avrebbe sempre indossato.
Ai Mondiali italiani, “Sindi” si presentò in gran spolvero, aprendo le marcature nell’ottavo di finale contro la Francia, che tuttavia fu superata solo ai supplementari. Nei quarti, l’Austria toccò l’acme della sua forza, rispedendo a casa i “cugini” ungheresi, fra le cui file militava l’elegante centro-mediano György Sárosi, uno dei pochi che poteva contendere a Sindelar la palma ideale di miglior giocatore del mondo e che però rimase sottotono anche a causa di una ferita rimediata nella gara precedente: finì 2-1 per gli uomini di Meisl, che tuttavia persero per infortunio il centrocampista Johann Horvath e dovettero affrontare la semifinale contro l’Italia in formazione rimaneggiata. La partita si giocò il 3 giugno 1934, a Milano, di fronte a 35.000 spettatori.
Gli azzurri erano giunti all’appuntamento dopo un sofferto doppio confronto e 210 (!) minuti di lotta contro la Spagna di Ricardo Zamora, il più grande portiere dell’epoca, e grazie alla benevolenza dei due arbitri, che avevano oltremisura tollerato il rude stile di gioco dell’undici allenato da Pozzo. Oltre alla fatica accumulata, l’Italia portava un altrettanto penalizzante carico psicologico, risalente al pesante rovescio patito a Torino nel febbraio precedente, quando il Wunderteam, pur privo di Sindelar, aveva agevolmente disposto degli italiani con l’eloquente punteggio di 4-2. Due fattori invece giocarono a vantaggio dell’Italia e furono infine decisivi: un acquazzone che appesantì il fondo del campo e ostacolò il pieno dispiegarsi dell’insistito fraseggio austriaco e soprattutto la solita, aperta pressione sull’arbitro Ivan Eklind, la cui direzione di gara smaccatamente casalinga gli guadagnò l’apprezzamento del Duce, che lo impose per la finalissima dopo averlo incontrato a quattr’occhi a Palazzo Venezia. Con Sindelar in ombra, per la ferrea e impunita marcatura dell’oriundo Luisito Monti, e altri elementi-chiave in giornata di scarsa vena, l’Austria cedette il passo agli azzurri, che peraltro ebbero bisogno di un gol magnanimamente concesso dall’arbitro, che giudicò ininfluente una carica di Giuseppe Meazza, il quale aveva atterrato il portiere Peter Platzer e favorito la rete in mischia del compagno Enrique Guaita, altro argentino di origini italiane, naturalizzato in fretta e furia dal regime per rinforzare lo rosa a disposizione di Pozzo.
La storia di Sindelar ai Mondiali terminò con quella sconfitta in semifinale, cui seguì un ricovero in ospedale per curare le ferite procurategli dalle “carezze” di Monti. Fu durante quella degenza che Sindelar conobbe Camilla Castagnola, la donna ebrea che sarebbe divenuta sua moglie. La parabola sportiva non si chiuse però con la rassegna iridata e quella esistenziale conobbe episodi che avrebbero eternizzato la figura del fuoriclasse austriaco.
Nell’Europa battuta dai venti di guerra alimentati dai desideri espansionistici di Hitler e Mussolini, lo sport divenne uno degli scenari più visibili su cui si misuravano i propositi bellicosi delle potenze dell’Asse. Grazie anche alla cedevole politica diplomatica di Francia e Inghilterra, la cui manifestazione sportiva più eclatante fu il saluto nazista che i giocatori inglesi rivolsero al pubblico berlinese prima dell’amichevole contro la Germania il 14 maggio 1938, i nazisti procedettero all’annessione dell’Austria.
Il risvolto calcistico dell’Anschluss fu che la scadente compagine tedesca poté fagocitare le stelle del Wunderteam: gli imminenti Mondiali di Francia e la fondata speranza di chiudere con un piazzamento di prestigio, indussero il selezionatore Sepp Herberger a fare pressione su Sindelar, per convincerlo a passare armi e bagagli con la Germania.
“Cartavelina” era però noto nell’ambiente per le sue simpatie socialdemocratiche, retaggio dell’infanzia passata nella “rossa” periferia viennese, fra gli operai che affluivano nella capitale in fuga dalle depresse periferie imperiali. Dopo l’Anschluss, Sindelar era rimasto in silenzio e chi lo conosceva bene sapeva che stava meditando il gran rifiuto. All’ormai ostracizzato ex presidente del suo club, l’ebreo Michael Schwarz, il mite “Sindi” aveva detto: «Il nuovo führer dell'Austria Vienna ci ha proibito di salutarla, ma io vorrò sempre dirle "Buongiorno" ogni volta che avrò la fortuna di incontrarla». Era chiaro che Sindelar aspettava solo la circostanza più adatta per far sapere a tutti la sua decisione e il 3 aprile 1938 gli si parò davanti l’occasione giusta.
Quel giorno la Federazione tedesca aveva programmato al Prater di Vienna la “partita della riunificazione” fra Germania e Austria, prima che sotto le insegne naziste si sciogliesse l’intero movimento calcistico del Terzo Reich, in nome della (imposta) fratellanza germanica. Le autorità naziste avevano stabilito che la gara finisse in parità con un punteggio basso e invece andò in scena uno degli incontri più straordinari di sempre.
Per tutto il primo tempo e per buona parte della ripresa, Sindelar e compagni lasciarono che fossero gli avversari a menare le danze, i cui attacchi rintuzzavano però con relativa facilità. Poi, qualcosa scattò nella mente di “Cartavelina”, che in un attimo spedì il pallone alle spalle del portiere tedesco. Prima che i gerarchi in tribuna potessero pensare a una reazione, il vantaggio fu raddoppiato da Karl Sesta. La gara terminò 2-0 e alla fine, con indosso l’insolita divisa biancorossa in omaggio alla bandiera nazionale che quel giorno sarebbe stata per sempre ammainata, anche i giocatori austriaci si recarono sotto la tribuna d’onore. Tutti i giocatori tesero il braccio destro accompagnando il gesto con il noto “Heil Hitler!”. Tutti, eccetto Sindelar.
La plateale dissociazione di “Sindi” non passò inosservata. Anche il famigerato Joseph Goebbels, Ministro delle Propaganda di Hitler, sentì il bisogno di pronunciare una velata intimidazione: «Sindelar è l’idolo di Vienna e vogliamo credere che meriterà questo affetto anche in futuro». La Gestapo lo convocò, fu insieme lusingato e minacciato nel tentativo di convincerlo a scendere in campo con la divisa tedesca agli imminenti Mondiali francesi, ma senza successo. Senza il suo apporto, la Germania fu estromessa al primo turno della Coppa del Mondo, addirittura superata dalla mediocre svizzera.
Anche Sindelar fece il suo viaggio a Parigi, dove presenziò alla finalissima fra Italia e Ungheria. Dopo la gara vinta dagli azzurri per 4-2, Sindelar ricambiò il saluto del pubblico che lo acclamava sulle note della “Marsigliese”: l’eco del suo rifiuto di eseguire il saluto nazista aveva valicato i confini del Reich ed era diventata una chiara affermazione politica. In patria, Sindelar non esitò a sostenere finanziariamente alcuni sparuti gruppi anti-nazisti. Acquistò un malandato café nel quartiere Favoriten, pagando al vecchio proprietario ebreo una cifra ben superiore a quella offertagli dai suoi persecutori nazisti. La Gestapo notò che il bar era frequentato soprattutto da ebrei, con i quali Sindelar intratteneva rapporti cordiali e amichevoli. Il cerchio cominciò a stringersi intorno a lui: al calar delle tenebre del 9 novembre 1938, nel corso dei pogrom della Notte dei cristalli, i vandali e gli assassini penetrarono nel palazzo dove Sindelar abitava con la moglie e solo all’ultimo momento decisero di ritirarsi risparmiando la coppia.
Infine, il 23 gennaio 1939, preoccupato per non averlo visto in giro da un po’ di tempo, l’amico Gustav Hartmann forzò la porta del suo appartamento in Annagasse e vi trovò Matthias già cadavere e Camilla agonizzante; la donna sarebbe morta in ospedale poco dopo. Le indagini, frettolosamente condotte, conclusero che la morte era avvenuta per avvelenamento da monossido di carbonio, fuoriuscito da una stufa difettosa. I corpi furono immediatamente cremati e pochi credettero alla versione ufficiale.
A oltre 70 anni di distanza, gli enigmi sulla vicenda del più grande calciatore austriaco di tutti i tempi non sono sciolti. Il rapporto sulla sua morte è stato perso dalla polizia. No, esiste ma è difficile da trovare. Il bar fu rilevato da Sindelar a un prezzo equo, per aiutare un conoscente ebreo in fuga; al contrario, sostengono altri, fu acquisito a una frazione del suo valore dal fuoriclasse austriaco che nel corso della carriera aveva dato prova di tenere in grande considerazione il denaro, come dimostrano le molte campagne pubblicitarie in cui si era impegnato, dalle auto ai sigari, dai vestiti ai gioielli. E la morte? Fu davvero un incidente, e non piuttosto un’abile messinscena della polizia nazista per liberarsi di uno dei pochi e popolari oppositori del regime? O magari un suicidio, per la disperazione di vedere il proprio paese precipitare nel gorgo della dittatura, oppure un avvelenamento orchestrato dalla moglie, stanca dei continui tradimenti di un notorio dongiovanni?
La risposta non c’è. O forse è quella che fornirono le 20.000 persone che accorsero al funerale dell’ex giocatore, in quella che fu, di fatto, l’ultima manifestazione di protesta contro il regime nazista, prima che la cappa del totalitarismo hitleriano si chiudesse sulla “provincia orientale”, come era stata ribattezzata l’Austria. Di lì a poco, la rivalità e le contese sui campi di calcio avrebbero ceduto il passo agli scontri mortali sui campi di battaglia.
Paolo Bruschi