
Un potente terremoto colpiva Basilicata, Campania e Puglia, l’esule antifascista Ignazio Silone pubblicava in Svizzera “Fontamara”, Marlene Dietrich conquistava fama planetaria con il film “L’angelo azzurro” intanto che Adolf Hitler conduceva il neonato Partito nazista al 18% dei voti nelle elezioni generali, Iosif Stalin avviava la collettivizzazione forzata delle campagne e la deportazione coatta dei contadini agiati, l’Impero britannico imprigionava il Mahatma Gandhi che aveva iniziato il movimento della disobbedienza civile per l’indipendenza dell’India e negli Stati Uniti si ballava il boogie-woogie, mentre il crollo della Borsa di New York trascinava nel baratro vari governi sudamericani, cui si sostituivano i militari a capo di feroci dittature. In Uruguay il colpo di stato si sarebbe verificato solo tre anni dopo, ma nel 1930 la popolazione del piccolo paese affacciato sul Rio de La Plata aveva occhi solo per la prima Coppa del mondo di calcio.
Il Campionato mondiale per squadre nazionali formate da giocatori professionisti era sorto in contrasto con l’intonazione rigidamente dilettantistica dei Giochi Olimpici, che guardavano con sospetto al football, considerato dai seguaci di Pierre De Coubertin più un intrattenimento che una vera competizione sportiva. Fortemente voluta dall’allora presidente della FIFA, il francese Jules Rimet, che dette il suo nome alla coppa che spettava ai vincitori, fu stabilito che l’edizione inaugurale della rassegna iridata fosse disputata in Uruguay, la cui rappresentativa nazionale aveva facilmente conquistato l’oro olimpico nel 1924 e nel 1928 e che aveva costruito nella capitale Montevideo uno stadio monumentale, denominato “Centenario” per celebrare l’anniversario dell’indipendenza del Paese.
Non vi furono partite di qualificazione e le 13 squadre partecipanti risposero all’invito della Federazione uruguayana. Dall’Europa, ne arrivarono solo quattro. Non le formazioni britanniche, che altezzosamente nemmeno aderivano alla FIFA, non l’Italia che, al pari di molti altri paesi, rinunciò per i costi della trasferta e la lunga traversata in nave. Alle due settimane di navigazione si acconciarono invece, fra gli altri, i Francesi, che si allenarono sui ponti della “Conte verde”, in mezzo agli altri passeggeri e smarrendo nell’oceano non pochi palloni.
Il 13 luglio 1930, nel freddo inverno australe e sotto un’intermittente nevicata, proprio i francesi superarono per 4-1 il Messico nella gara d’esordio della Coppa del Mondo e il centravanti Lucien Laurent segnò la prima rete della storia dei Mondiali. Al comando delle operazioni era curiosamente un francese pied noir, Alexandre Villaplane, nato nel 1905 in Algeria e sbarcato nella madrepatria solo da adolescente. Conteso dalle principali squadre transalpine a suon di ingaggi in nero, dato l’ancora vigente dilettantismo ufficiale, Villaplane era una sorta di Michel Platini ante-litteram, un centrocampista volitivo e di gran temperamento, dotato di un eccellente colpo di testa e soprattutto di spiccate doti di assistman: in breve assurse al ruolo di maggiore stella della nazionale e fu nominato capitano dei blues proprio alla vigilia dei Mondiali uruguayani. Guidare i compagni contro il Messico fu “il giorno più felice della sua vita”, che però di lì a poco avrebbe preso una piega inaspettata e funesta.
Dopo il vittorioso esordio, la Francia fu battuta dal Cile e dall’Argentina (che poi avrebbe perso in finale contro i padroni di casa), risultando così eliminata nel gironcino preliminare. Al ritorno in patria, Villaplane passò all’Antibes, che nel 1932 vinse il campionato battendo in finale i rivali del Lille. Fu però scoperto che il risultato dell’incontro era stato oggetto di un accordo truffaldino. I vincitori furono privati del titolo e il direttore sportivo radiato a vita, benché circolasse insistentemente la voce che il vero responsabile della truffa fosse stato Villaplane, salvato dalle sanzioni della giustizia per la sua fama. Fama sportiva che peraltro declinò rapidamente, per il disinteresse che l’ex campione mostrava ormai per il calcio, attirato assai di più dal sottobosco malavitoso che aveva cominciato a frequentare negli ippodromi, dove si recava spesso a scommettere i suoi lauti guadagni. Tornò alla ribalta della cronaca nel 1935, allorché venne incarcerato con l’accusa di aver truccato corse di cavalli a Parigi e in Costa Azzurra.
Allo scoppio della guerra, è noto, la Francia finì sotto il giogo hitleriano, il cui regime di occupazione offrì vaste occasioni di profitto a loschi figuri che si muovevano sui limiti e oltre i confini della legalità. Fra questi emerse l’ex galeotto Henri Lafont, il cui dubbio ceffo turbava persino i vertici nazisti fino a che l’empio collaborazionista non provò la sua fedeltà agli invasori, catturando e torturando personalmente il leader della Resistenza belga. Conquistati tali galloni, Lafont girò per le prigioni della capitale reclutando noti criminali come suoi collaboratori e finendo per mettere gli occhi sull’ex centrocampista venuto dall’Africa, che all’epoca aveva impegnato la propria invincibile avidità nel contrabbando di oro.
Il gruppo stabilì il proprio quartier generale nella banlieue parigina, al 93 di Rue Lauriston, uno dei più infami indirizzi della storia parigina, sede della gang conosciuta come la Gestapo francese. Incaricati di rifornire i gerarchi nazisti di ogni bene e servizio acquisibile sul prosperante mercato nero, gli uomini di Lafont accaparrarono ingenti ricchezze e si macchiarono di efferati delitti contro il crescente movimento di resistenza. Villaplane, nominato sotto-tenente delle SS, fu posto al comando di un’unità di rastrellamento che si distinse per la particolare crudeltà. L’11 giugno 1944, per rappresaglia dopo l’uccisione di alcuni soldati della Wehrmacht, 52 abitanti del piccolo villaggio di Mussidan, in Dordogna, furono tratti dalle proprie case, spinti in una fossa e passati per le armi. Villaplane comandò il plotone di esecuzione e, secondo alcune ricostruzioni, uccise lui stesso un ragazzo di 13 anni.
A dispetto, o proprio a causa delle atrocità subite, l’opposizione armata dei patrioti francesi crebbe d’intensità e, in combinazione con l’avanzata delle forze alleate sbarcate in Normandia, prese il sopravvento. Villaplane maturò la convinzione che i nazisti non avrebbero vinto la guerra e, nel tentativo di recuperare l’onorabilità perduta, si diede a plateali gesti di misericordia, che peraltro compiva chiedendo alle vittime somme da capogiro per aver salva la vita.
Nell’agosto del 1944 , Parigi fu infine liberata. I capi della Gestapo francese furono salvati dall’ira della folla inferocita e consegnati alla giustizia. Il processo che seguì fu rapido e gli imputati furono condannati a morte: «Hanno saccheggiato, violentato, derubato, ucciso e collaborato con i tedeschi per oltraggi ancora peggiori – disse il pubblico ministero nella requisitoria -, hanno lasciato fuoco e rovine dietro il loro passaggio. Un testimone ha raccontato di aver visto questi mercenari depredare di gioielli e valori i corpi insanguinati e rantolanti delle vittime. Villaplane stava nel bel mezzo di tutto questo, calmo e sorridente, allegro, quasi rinvigorito».
Il giorno dopo Natale del 1944, insieme a Lafont e altri sei sodali, Villaplane fu condotto al Forte di Montrouge e giustiziato: in soli dieci anni, era passato dal rango di orgoglio nazionale alla colpa suprema di traditore della patria.
Paolo Bruschi