
When I get older, losing my hair,
Many years from now
Will you still be sending me the Valentine,
Birthday greetings, bottle of wine
Will you still need me, will you still feed me
When I'm sixty-four.
The Beatles – “When I’m sixty-four”
Esordì il 15 ottobre 1972, al Bentegodi di Verona, e la Fiorentina vinse per 2-1. Vladimiro Caminiti, cui non facevano difetto le definizioni immaginifiche che non dispensava a caso, scrisse l’indomani che aveva ammirato “un ragazzo che gioca guardando le stelle”. Su “l’Unità”, Giuseppe Maseri si spinse oltre, accostandolo al sommo Gianni Rivera, anzi accreditandolo di maggior “mordente e temperamento”; pure “Il Corriere dello sport” arrischiò nel titolo il paragone con il “Golden boy” rossonero. Nils Liedholm, il tecnico che lo aveva gettato nella mischia per sostituire Giancarlo De Sisti, come suo costume non si sperticò in lodi eccessive, ma al rientro di “Picchio” riorganizzò la squadra per far posto alla diciottenne promessa, che alla fine del campionato accumulò ben 20 presenze, condite da due reti.
Da allora sono passati oltre 40 anni e c’è da credere che Giancarlo Antognoni, mentre ne compie 60, indugi con il ricordo a quella domenica in cui tutto ebbe inizio. Sessant’anni, è vero, invogliano più a un bilancio sulla vita intera che su una carriera terminata da tempo, ma per ovvi motivi è alla seconda che è dedicato questo breve omaggio.
Ora che Giancarlo è entrato gagliardamente nella terza età e noi bambini rapiti dalla sua classe ci siamo mutati in adulti brizzolati, occorre dire che la parabola sportiva di Antognoni non si è compiuta completamente. Che le premesse stabilite quella domenica d’autunno a Verona e le aspettative suscitate dai quei precoci lampi di genio calcistico non sono state pienamente soddisfatte. I tratti rari del campione in nuce - la falcata elegante, il portamento regale, l’ampia visione di gioco assistita da una battuta pulita e precisa, il destro capace di schiaffeggiare con potenza la palla e un minuto dopo di carezzarla con morbidi tocchi felpati - si sono trasformati in uno splendido giocatore, che tuttavia è rimasto qualche gradino sotto il rango della stella assoluta. Per due motivi, direi.
Anzitutto, l’amore del popolo viola, intenso, incondizionato e soffocante, ricambiato dal campione al punto da indurlo a respingere le lusinghe, a volte insistite, delle più ricche e attrezzate squadre del nord. L’attaccamento alla maglia gigliata è costato ad Antognoni una bacheca piena di titoli e la reclusione in un calcio periferico che l’ha tenuto lontano da cimenti più probanti e gli ha impedito di acquisire maggiore fiducia nei propri mezzi, fino a precludergli l’ingresso nel ristretto novero dei grandissimi. Suo coetaneo, con una traiettoria iniziale simile quanto a promesse di splendore, lo stesso Michel Platini dovette forgiare il suo talento al fuoco del ben più arduo campionato italiano per affermarsi come uno dei più forti della sua epoca.
La seconda ragione è l’enorme credito che Antognoni vanta con la fortuna, che gli ha voltato le spalle più volte e in momenti cruciali della parabola agonistica. Nel 1978, in occasione dei Mondiali argentini, la sua prima vetrina internazionale, Giancarlo fu limitato da una fastidiosa tarsalgia e rimpiazzato spesso dal torinista Renato Zaccarelli, uno dei giocatori che l’ostile stampa “nordista” gli ha periodicamente preferito, insieme a Evaristo Beccalossi e poi a Giuseppe Dossena. Agli Europei del 1980, disputati in Italia dopo il primo calcio-scomesse che impose a Enzo Bearzot la rinuncia ai bomber Paolo Rossi e Bruno Giordano, il viola arrivò in splendida forma: trascinò gli Azzurri alla vittoria contro l’Inghilterra, ma fu costretto ad abbandonare nella gara decisiva contro il Belgio per un infortunio muscolare.
Prima dei Mondiali spagnoli, nel lungo testa-a-testa con la Juventus, la Fiorentina perse il suo capitano in novembre, dopo il tremendo scontro con il portiere del Genoa Silvano Martina, che per poco non lo uccise. Grazie a una tenacia che pochi gli riconoscevano, “Antonio” tornò in primavera per lo sprint finale, ma al termine i bianconeri prevalsero per un solo punto e fra mille polemiche per alcuni favori arbitrali.
In estate, si giocò la Coppa del Mondo. Come il resto della squadra, Antognoni partì in sordina e il suo astro rimase offuscato nelle partite eliminatorie. Nelle memorabili sfide contro Argentina e Brasile, Giancarlo salì di tono. Contro i carioca, siglò anche la rete che sarebbe valsa il 4-2 finale se l’altrimenti impeccabile arbitro Abraham Klein non gliel’avesse ingiustamente annullata. Con l’assillo di segnare finalmente una rete nella fase finale di un Mondiale, Antognoni scese in campo nella semifinale contro la Polonia e fece scempio degli avversari per venti minuti: servì a Rossi il pallone dell’1-0 e impose il proprio dominio in mezzo al campo, fino a che non si avventò scriteriatamente su un pallone vagante nella speranza di saettarlo in gol, rimediando invece in un contrasto assassino una ferita al piede che lo tenne fuori dall’apoteosi contro la Germania Ovest, quando avrebbe verosimilmente aperto le marcature trasformando il rigore che invece Antonio Cabrini calciò a lato.
Infine, come già raccontato in occasione del trentesimo anniversario, per la seconda volta alla guida di una Fiorentina spettacolare e competitiva, lanciata sulle tracce della Juventus di Platini e in seria corsa per l’agognato Scudetto, il 12 febbraio 1984, patì la frattura di tibia e perone in uno scontro con il blucerchiato Luca Pellegrini. Fu di fatto il canto del cigno: i viola declinarono mestamente e, quando riabbracciarono la propria bandiera 21 mesi dopo, dovettero amaramente constatare che l’antica magia aveva abbandonato l’unico n. 10.
Questa lunga sequela di accidenti e di porte chiuse in faccia dalla iella, non è estranea all’immutato affetto che ancora gli tributano i tifosi viola. La non ripetuta simbiosi fra la famosa città d’arte, i suoi orgogliosi cittadini e uno dei maggiori esempi di bellezza del calcio italiano è senz’altro dovuta anche al malinconico sentimento che sempre si associa al pensiero di quello che poteva essere e non è stato, allo struggimento che provoca il vago senso di occasione mancata, o almeno non compiutamente colta, che si legge in filigrana nella storia di Antognoni.
Dal canto suo, Antognoni ha sempre mostrato un invidiabile equilibrio nel rievocare le vicissitudini della sua meravigliosa e non meno travagliata carriera: anche nella lunga chiacchierata al Chiostro degli Agostiniani, nel luglio del 2102, tenne a precisare di non covare che pochi rimpianti e di essere soprattutto grato per aver ricevuto in dono il talento che gli ha permesso di raggiungere tanti prestigiosi traguardi.
Si tratti della propensione a guardare a se stessi e agli altri con occhio ironico o magari del disincanto fatalista che sovente caratterizza le persone semplici, abituate a dare il giusto peso alle cose della vita, è da ritenere che Giancarlo consideri oggi le sconfitte più dolorose e i tanti rovesci della malasorte, nient’altro che dolci memorie da raccontare, come direbbero i suoi tifosi più attempati, ni’ canto di fòco.
Paolo Bruschi