La lunga e solitaria discesa di Pantani verso la tragedia

Pantani con Gimondi

Avevo trovato una sistemazione per la notte in una discutibile locanda di un qualche paesetto dopo il Col du Lautaret, lungo la magnifica strada che fra le Alpi delle Grandes Rousses e il Massiccio des Écrins scende verso Le Bourg d’Oisans, da dove il 21 luglio i corridori del Tour de France 2004 sarebbero partiti per la cronoscalata dell’Alpe d’Huez. Non era tuttavia il caso di fare gli schizzinosi, vista la massiccia invasione di appassionati provenienti da ogni paese del mondo. Vestiti di mille colori e a cavallo di biciclette più o meno tecnologiche, già sciamavano per i tornanti o sedevano ai tavolini dei caffè con le gambe e le braccia bruciate dal sole, mentre davano libero sfogo a pronostici, memorie e speranze. Da un gruppo di loro, avevo saputo che l’ascesa verso l’Alpe d’Huez sarebbe stata chiusa al transito cicloturistico fin dalle 9 del mattino. Dovendo percorrere dal mio alloggio più di 30 chilometri per giungere al punto di partenza della tappa e non intendendo sottopormi a una levataccia in piena notte, decisi di arrivare sul tracciato salendo il Col de Sarenne, da cui si può arrivare all’Alpe d’Huez con una discesa di una decina di chilometri.

Paolo Bruschi

Paolo Bruschi

L’indomani la sveglia suonò alle 6 del mattino e mi trovai a fare colazione con altri amateur assonnati, debitamente abbigliati e ansiosi di pedalare sull’asfalto della mitica Grand Boucle. Partimmo in drappello nell’aria frizzante delle Alpi, unendoci presto a molti altri che procedevano nella stessa direzione, godendo per la velocità che la lunga discesa ci consentiva di tenere. Poi, ci sfilacciammo, i più allenati guadagnarono terreno e mi trovai a sorpassare ed essere sorpassato, mentre ci lanciavamo occhiate d’intesa, sicuri di essere all’inizio di una giornata memorabile. All’attacco del Col de Sarenne, il sole già picchiava e a Mizoën comprai dei panini per il pranzo. Da lì, proseguii la salita, che si inerpica per dodici chilometri fino a 1.999 metri di quota, con pendenze medie intorno all’8% e massima del 13%, in un paesaggio brullo e su asfalto incerto. La prolungata fatica dell’ascesa era pari solo all’eccitazione per l’impresa, alla sensazione di pedalare sulle tracce dei miti delle due ruote, che presto avrei ammirato nella suprema tenzone della gara. Leggevo sulle facce paonazze dei miei sconosciuti sodali la soddisfazione per l’eroismo sportivo di cui stavamo tutti dando prova. Uomini e donne, giovani e vecchi, bambini e ragazzi, stantuffavamo sui pedali, ansimando e sorridendo, smanettando sui cambi per alleviare lo sforzo e armeggiando con i berretti per proteggerci dal sole. Alcuni erano così grassi che le tute attillate li rendevano simili a salsicce ipercaloriche; altri incitavano figli forse inconsapevoli a resistere; altri ancora montavano destrieri meccanici altamente improbabili, forse frutto della loro creatività ingegneristica. C’erano quelli così attempati che a malapena si sorreggevano sulla bicicletta e certo erano lì contro il parere di qualche medico; quelli con variopinte capigliature tardo-punk che ti saresti aspettato di vedere in Carnaby Street piuttosto che sulle tracce di Fausto Coppi o Jacques Anquetil; diafani coniugi scandinavi o anglo-sassoni più in crisi per i dardeggianti raggi solari che per le aspre pendenze: insomma, una variegata umanità grata di esserci e di condividere con i propri simili quella esperienza, insieme atletica e, mi vien da dire, socio-culturale.

Quasi in prossimità della vetta, fui affiancato da una coppia di giovani che si dichiararono canadesi del Pacifico, specie di pellegrini in visita ai santuari ormai globali della corsa francese. Con il poco fiato non requisito dallo sforzo, ci scambiammo complici convenevoli, enunciando le nostre rispettive passioni per Lance Armstrong e Ivan Basso, che quel giorno avrebbero scritto la pagina decisiva del loro duello per la maglia gialla. Individuatomi come italiano, prima di lasciarmi indietro con garbo e qualche pudore, la ragazza volle esprimere la sua comprensione e il suo cordoglio per il mio cuore di tifoso, che immaginava ferito. “Sorry for Marco”, mormorò con partecipazione e si pose in scia al fidanzato che aveva incrementato l’andatura.

Li vidi in breve rimpicciolire per la distanza e sulla sommità non li ritrovai, nel chiassoso festival di pacche sulle spalle e foto ricordo che tutti i sopravvissuti alla salita si scambiavano felici. Osservandoci tutti come da fuori, mi fu chiaro quello che avevo sempre saputo e che vale ancora oggi, mentre da qualche giorno i giornali celebrano il decimo anniversario della morte di Marco Pantani, avvenuta il 14 febbraio 2004. Contro le nefandezze compiute dai professionisti, ci eravamo riuniti per onorare testardamente e contro tutte le evidenze il nostro genuino slancio per lo sport e per le vivide e immediate emozioni che solo lo sport sa suscitare. In pratica, lungi dall’assiepare i prati scoscesi intorno al percorso per adorare campioni adulterati o meno, eravamo lì per rendere il giusto omaggio ai nostri amori ed esaudire i nostri desideri di “mendicanti di sogni”.

Mi piace credere che la spirale fatale in cui Pantani si avvitò dopo il 5 luglio 1999, quando fu sospeso dal Giro d’Italia che stava dominando per i valori di ematocrito fuori dai limiti consentiti, non dipendesse solo dall’umiliazione che aveva subito di fronte al mondo, dalla rabbia e dalla vergogna provocate dalla sorda sensazione di venire punito come capro espiatorio, dal crollo delle certezze che lo avevano condotto alla fama planetaria, dalla fine dell’adulazione che viene sempre con la gloria sportiva. Ci doveva essere altro, qualcosa di più profondo e irredimibile.

Nella sua lunga e solitaria discesa verso la tragedia, terminata quasi cinque anni dopo ma già scritta nel volto terreo che mostrò mentre i carabinieri lo scortavano lontano dagli sguardi di giornalisti e curiosi, Pantani toccò tutte le stazioni della decadenza: il vittimismo paranoico per complotti e congiure, la dipendenza dalla cocaina, le sporadiche risalite unite alle promesse vane e altisonanti, la rottura con la fidanzata, la diserzione dalla famiglia e dai pochi amici sinceri e disinteressati, la distruzione di auto costose in incidenti spettacolari, lo sperpero di denaro, il ricorso alla chirurgia plastica per raddrizzare il naso e chiudere le celebri orecchie a sventola, il rifugio negli amori mercenari e nella consolazione degli psicofarmaci.

Forse, però, più che dai giudici e dagli spacciatori, Pantani si sentiva braccato da una promessa tradita, da quella che, spogliandosi della bandana per annunciare l’imminente accelerazione, aveva sottoscritto ogni volta con le folle che gli si facevano intorno incitandolo e venerandolo. La rottura del patto d’onore che aveva stretto con tifosi e appassionati lo rinchiuse dentro una prigione psicologica da cui non vedeva vie di fuga. Allora, lasciarsi andare alla deriva gli parve il solo modo per cancellare quella somma infamia.

Paolo Bruschi