Il museo della deportazione ricorda Carlo Castellani

Carlo Castellani

Su iniziativa della Fondazione Museo della Deportazione e Resistenza di Prato, si sono svolti giovedì 30 gennaio, alla biblioteca “Lazzerini”, la proiezione del film “Storie di sport al tempo delle leggi razziali e del nazismo” (curato dal giornalista Massimo Sandrelli) e la contestuale inaugurazione della mostra foto-biografica “Campioni nella memoria: storie di atleti deportati nei campi di concentramento”. L’incontro, nel quadro degli eventi collegati al “Giorno della memoria”, è servito a guardare all’Olocausto dall’angolazione tutta particolare dei molti sportivi che patirono le atroci conseguenze della macchina di morte hitleriana.

Fra le storie rievocate, un posto di rilievo è stato occupato da quella di Carlo Castellani. Alla presenza della delegazione empolese, composta dal figlio Franco, da Sauro Cappelli dell’Associazione Nazionale ex Deportati e da Eleonora Caponi, Assessore alla Cultura, è stata raccontata la vicenda del calciatore che finì i suoi giorni nel lager di Mauthausen-Gusen e al quale sono intestati lo stadio di Empoli e quello di Montelupo Fiorentino.

Ai primi di marzo del 1944, come molte altre città del Nord Italia, Empoli e i paesi vicini erano stati attraversati da un potente spirito di rivolta, nella forma di uno sciopero che trasferì nelle fabbriche il crescente movimento della Resistenza. Le forze naziste occupanti e i fascisti furono costretti a distogliere uomini e mezzi dal fronte militare per riportare l’ordine nel sistema produttivo, già duramente provato da quasi quattro anni di conflitto. Lo sciopero proclamato dalle forze partigiane ebbe una risonanza inaspettata e fu certamente il più ampio e partecipato movimento di protesta mai registrato nei territori occupati dalla Wehrmacht. Né i nazisti, né i fascisti potevano tollerare un simile affronto e fu decisa immediatamente una punizione esemplare. Anche nella nostra zona, i camerati operarono rastrellamenti a tappeto, andando casa per casa, bussando alle porte di quelli che conoscevano bene e che sospettavano di simpatie antifasciste. Arrivarono anche a Fibbiana, nella notte dell’8 marzo, nella casa che ancora occupa la famiglia Castellani. Volevano David Castellani, noto per le sue simpatie socialiste, e gli urlarono dalla strada di seguirli in caserma: «Lo ricordo come fosse ora – racconta Franco Castellani che all’epoca aveva sei anni -, il babbo si affacciò alla finestra e vide che alla porta c’era il suo amico Orazio Nardini. Si rivolse alla mamma e le disse di restare con noi bambini, mentre lui scendeva a sentire cosa volevano, visto che il nonno David era malato».

Carlo Castellani scese in strada e spiegò a Nardini che il padre era indisposto: fa lo stesso se vengo io dal maresciallo, domandò. Nardini annuì e ne firmò la condanna a morte. Carlo fu spinto sul camion insieme ai molti altri che erano già stati catturati. Si diressero a Montelupo e da qui, con il treno, a Firenze, dove salirono sui vagoni piombati che fecero immediatamente rotta per la Germania: «Il babbo non era impegnato in politica – rievoca ancora Franco -, era un calciatore, aveva chiuso la carriera nell’Empoli, dopo aver calcato i campi di Serie A con il Livorno. Quando lo presero, sono convinto che fosse sicuro di tornare, non aveva niente per cui nascondersi, avesse saputo il suo destino certamente avrebbe cercato di fuggire, di gettarsi dal treno o di scappare, come fecero altri che saltarono dai camion perché avvertiti del pericolo mortale cui andavano incontro. Era un’atleta, non gli sarebbe stato difficile darsi alla fuga. Una volta, dopo una partita, raccontava sempre la mamma, era tornato a piedi, in maglietta e pantaloncini, da Signa a Fibbiana!».

Invece, Carlo scese dal treno solo quando questo giunse al campo di Mauthausen-Gusen, nei pressi di Linz. Stremato dal lavoro, dalle percosse, dal freddo e dalla fame, Carlo cadde vittima della dissenteria e fu rinchiuso nell’infermeria dove riceveva saltuariamente la visita dell’amico Aldo Rovai. Morì l’8 agosto 1944, in mezzo a terribili sofferenze. La moglie Irma non volle accettare l’atroce verità e a lungo rifiutò di portare il lutto, fino a che dovette rassegnarsi all’orribile realtà che gli confermò proprio Rovai, sopravvissuto agli aguzzini nazisti e ultimo a vedere in vita Castellani.

La vicenda di Carlo Castellani è inclusa nella già citata mostra “Campioni nella memoria”, curata non a caso da Barbara Trevisan, ex pallavolista e oggi docente di scienze motorie in una scuola media di Scandicci. Non a caso, dico, perché la professoressa Trevisan è figlia di una coppia di deportati che si conobbero e si unirono in matrimonio in un campo di concentramento, lui italiano e lei polacca. Con un lungo e appassionato lavoro di ricerca, Barbara Trevisan ha riportato alla luce le traiettorie, spesso fatali, di atleti e sportivi, vittime del piano di sterminio nazista. Si apprende così che la follia genocida non risparmiò nemmeno gli idoli degli stadi e delle arene e che l’uscita dalla pagina più buia della storia dell’umanità fu possibile anche grazie alle scelte coraggiose di libertà, giustizia e tolleranza di uomini e donne che credevano nei più alti ideali dello sport.

Fonte: Fondazione Museo della Deportazione e Resistenza di Prato

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