Socrates: pensare con i piedi, un filosofo sui campi di calcio

Socrates

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Se le persone non hanno il diritto di parlare, allora sarò io a parlare per loro.

Quando ero un calciatore, quello che facevo con i piedi amplificava la mia voce

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In un’intervista rilasciata alla Gazzetta dello Sport, il regista Mimmo Calopresti ha dichiarato di avere in cantiere un film su Sócrates Brasileiro Sampaio de Souza Vieira de Oliveira, il calciatore brasiliano conosciuto semplicemente come Socrates, scomparso nel 2011. Calopresti ha detto giustamente che Socrates rappresenta «un campione che per l’immaginario collettivo va ben oltre lo sport» ed è intuibile che il film tenterà soprattutto di trasmettere proprio questi significati extra-sportivi. C’è da dire che Calopresti non è nuovo a imprese del genere, avendo già realizzato il bel documentario “La maglietta rossa”, che racconta la tribolata genesi del viaggio dell’Italia di Adriano Panatta e Corrado Barazzutti nella Santiago straziata dalla sanguinaria dittatura di Pinochet per contendere al Cile la Coppa Davis del 1976.

Solo per un caso fortuito l’annuncio di Calopresti è praticamente coinciso con la nascita di questo blog, che prende il titolo proprio dall’esperienza socio-sportiva che presumibilmente sarà al centro della pellicola del regista torinese. Come si dice, dunque, l’occasione è ghiotta per ripercorrere la parabola di quella vicenda ormai lontana che è passata alla cronaca dello sport come la “Democracia corinthiana” e che fu guidata sul campo dal carisma di un capo-popolo dai piedi buoni e fuori dal campo da un fuoriclasse con le stimmate del leader politico.

Socrates, è bene premetterlo, fu un uomo segnato da non poche contraddizioni: laureato in medicina e medico praticante ha lasciato che l’alcool e il fumo tormentassero il suo fisico fino a ucciderlo; alto e allampanato colpiva il pallone di testa solo quando giocava in cortile con i sei figli e fece del colpo di tacco il suo marchio di fabbrica; incolpava i genitori di averlo battezzato con un nome troppo ingombrante e chiamò Fidel uno dei suoi figli in onore del Lider maximo cubano. Fu però un uomo dai saldi principi politici e sociali e dedicò la vita a realizzarli, facendo seguire fatti coerenti ad affermazioni di principio. Il periodo della storia del Corinthians che va sotto il nome di “Democracia corinthiana” è stato senza dubbio il suo lascito più grande.

Socrates fu acquistato dal Corinthians nel 1978, per rinforzare le aspirazioni di grandezza del club che dopo un’astinenza di 23 anni aveva appena vinto il Campionato Paulista. Il Corinthians non aveva una particolare tradizione di vittorie, ma inorgogliva i tifosi per le proprie origini, visto che era stato fondato nel 1910 da un gruppo di operai immigrati in un periodo in cui il calcio era uno sport elitario, giocato soltanto dagli appartenenti alle classi superiori o dai lavoratori delle compagnie britanniche di stanza in America Latina. Con i bianconeri di San Paolo, “O Doutor” conquistò la maglia della nazionale brasiliana e il pugno chiuso levato al cielo dopo ogni gol rinfocolò negli appassionati l’antico orgoglio di classe: nel giro di un biennio furono così poste le basi per il primo caso di autogestione di una società calcistica.

Nel 1981, i risultati sportivi furono pessimi e indussero il presidente Vicente Matheus a passare la mano a Waldemar Pires, che nelle intenzioni doveva essere un fantoccio etero-diretto, manovrato dalla longa manus del presidente dimissionario. Pires invece si liberò della tutela del predecessore e come primo atto rivoluzionario affidò la squadra al sociologo Adílson Monteiro Alves, che non era un allenatore ma uno studioso noto per essere un simpatizzante di sinistra che aveva in odio la dittatura che governava il Brasile ormai dal 1964. Alves si presentò alla squadra e come decisione inaugurale convocò una sorta di assemblea: ammise la sua impreparazione e invitò i giocatori a esprimere per la prima volta il loro pensiero sulla squadra e sul modo in cui erano stati condotti fino ad allora.

I giocatori cominciarono col chiedere di smetterla con la pratica del ritiro pre-partita. Disse Socrates: «Il fine ultimo del ritiro è di umiliare le persone. È come dire: "Tu non vali niente, sei un irresponsabile, devi essere tenuto sotto sorveglianza". È una cosa stupida. Tanto più uno sta bene, tanto più uno gioca bene».

Poi, vollero decidere del regime alimentare da seguire, quando partire per le trasferte e quando tornare, infine presero a stilare la formazione da spedire in campo. Tutto quanto veniva deciso a suffragio universale, ognuno esprimeva la sua opzione secondo il principio “una testa, un voto”, per cui l’opinione del magazziniere contava come quella del capitano della squadra, il terzo portiere valeva come il direttore tecnico: nessuno mai si lamentò del sistema decisionale.

Come per miracolo, i giocatori presero fiducia, divennero un gruppo coeso e compatto, inanellarono vittorie su vittorie, le esauste finanze furono risanate e il Corinthians divenne un marchio popolare. Allora, intervenne Socrates, che di quel gruppo era il leader naturale: fu lui a trasformare una vicenda sostanzialmente ancora solo calcistica in un’occasione per parlare alle folle del futuro del Brasile.

Da troppo tempo la dittatura, pur non ferrea come altre che nello stesso periodo funestavano il Sudamerica, conculcava la libertà delle persone; le ricette neo-liberiste, la compressione dei salari, il declino economico dopo un breve boom produttivo, spinsero il popolo ad accentuare la protesta e il Corinthians quasi naturalmente fiancheggiò questo movimento e lo alimentò con i suoi strumenti: ogni gol divenne un’accusa contro la dittatura morente e un incitamento alla gente a prendere in mano il proprio destino. La squadra indossò magliette che inneggiavano alla democrazia contro il parere della Federazione calcistica e nell’imminenza delle prime elezioni libere a livello municipale portarono sulla schiena un’esortazione a recarsi alle urne.

I giocatori salivano sui palchi delle manifestazioni politiche, Socrates parlava alle folle e la democrazia praticata con successo sul campo di calcio fu pretesa con più forza nel paese. Il Corinthians vinse due campionati consecutivi e parve quindi il momento per alzare il livello delle richieste. Di fronte a più di un milione di manifestanti, Socrates legò il suo destino personale a quello del Brasile, mentre le sirene europee già tentavano di sedurlo con la promessa di un conto corrente più ricco: «Se sarà approvato l’emendamento costituzionale per consentire il ritorno alle urne e l’elezione diretta del Presidente, io resterò a giocare in Brasile!».

La moltitudine rispose con un boato di gioia, per la speranza di trattenere uno dei campioni più amati, dopo che già se n’erano andati Zico, Cerezo, Falcao e Junior, e per il desiderio di vedere l’alba di un’autentica democrazia. Ma l’emendamento non passò. Socrates tenne fede alla parola data e nell’estate del 1984 accettò le offerte della Fiorentina di Pontello, dove avrebbe peraltro trascorso una stagione anonima, invischiato nelle lotte intestine di una squadra divisa in fazioni.

L’addio di Socrates segnò la fine della “Democracia corinthiana”, che per un lungo, inebriante momento aveva supportato il processo di ri-democratizzazione del Brasile e relativizzato il peso di una vittoria o di una sconfitta di fronte al valore inestimabile della libertà politica e della giustizia sociale: in altre parole, aveva dimostrato che essere campioni è solo un dettaglio.

Socrates

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Paolo Bruschi