Obdulio Varela, che fece piangere il Brasile e poi lo consolò

Una delle più grandi sorprese della storia dei Mondiali si deve al fiero capitano dell'Uruguay, che sfidò undici avversari e uno stadio intero


Varela

Molti lettori mi domandano se [mio padre]

era proprio come lo racconto adesso.

Certo, sì. Lo dice anche un personaggio di Armando Discèpolo:

«Figlio, se tu lo hai sognato, io l’ho vissuto»

Osvaldo Soriano, epigrafe di “Pensare coi piedi”

 

Quando il romanzo “Cent’anni di solitudine”, pubblicato da Gabriel Garcia Marquez nel 1967, guadagnò fama planetaria, trasferì dalle arti visive alla produzione letteraria il genere denominato “realismo magico”, in omaggio a uno stile narrativo che mescolava i piani della realtà e della fantasia, il folklore e la leggenda, in una dimensione temporale a volte circolare, a volte sospesa, raramente lineare. Da quell’esordio, innumerevoli scrittori sudamericani si sono incamminati per la stessa strada, contaminando il reale con il fantastico e affermando a gran voce che in letteratura conta di più quello che si ricorda di quello che è vero. Con l’unica controindicazione che resta sempre il dubbio che quanto si legge alberghi solo nella mente dello scrittore e non sia in effetti mai avvenuto.

Dei Mondiali del 1950, si sa con certezza, perché è scritto negli almanacchi, che la vittoria arrise inaspettatamente all’Uruguay, che nella partita decisiva superò i padroni di casa del Brasile per 2-1, grazie alle reti di Juan Alberto Schiaffino e Alcide Ghiggia. Tuttavia, nelle rievocazioni di Osvaldo Soriano (“Fútbol”, Einaudi, 1998) e di Jorge Valdano (“Il sogno di Futbolandia”, Mondadori, 2004), l’uomo cui la Celeste dovette il successo fu il roccioso e imperturbabile capitano Obdulio Varela. Poiché è stato autorevolmente asserito che non è opportuno rovinare una bella storia con bazzecole insignificanti come i fatti, è a quelle reminiscenze che da qui in avanti si farà riferimento.

Come già raccontato, per varie vicissitudini, solo 13 squadre presero parte alla nuova edizione della Coppa Rimet. Allo scopo di incrementare il numero delle partite e, di conseguenza, gli incassi, per ripianare le ingenti spese dovute all’edificazione dei nuovi stadi, la Federazione brasiliana propose di sostituire il sistema delle partite a eliminazione diretta con la suddivisione delle squadre in quattro gruppi eliminatori, dai quali le prime classificate sarebbero confluite in un girone finale. Le quattro elette furono i padroni di casa, l’Uruguay, la Spagna e la Svezia, che si incontrarono dunque per decretare la squadra campione.

Nelle prime due gare, il Brasile rifilò sette reti alla Svezia e sei alla Spagna, che costrinse al pari gli uruguayani, i quali vinsero faticosamente contro gli scandinavi, grazie a una rete di Oscar Miguez a cinque minuti dalla fine. Lo scontro decisivo avrebbe dunque visto di fronte le due squadre sudamericane, ma al Brasile sarebbe bastato un pareggio per conservare la testa del gironcino e laurearsi campione. Prima della gara, nessuno dubitava che questo sarebbe stato l’esito finale.

I giocatori carioca avevano ricevuto in regalo degli orologi con su stampata la dicitura “Ai Campioni del mondo”, le prime pagine dei giornali erano già state preparate e la sfilata dei carri celebrativi, sorta di carnevale fuori stagione, era già stata organizzata. Di fronte a un imponente guardia d’onore, il presidente della FIFA Jules Rimet avrebbe pronunciato un discorso pomposo e solenne, nel quale avrebbe elogiato la compagine più spettacolare del mondo e l’efficienza della nazione che in soli due anni aveva costruito il “Maracanã”, lo stadio più grande del mondo.

Il Maracanã è stato ristrutturato per i prossimi Mondiali

Il Maracanã è stato ristrutturato per i prossimi Mondiali

C’erano indiscutibili ragioni tecniche che spiegavano l’ottimismo brasiliano. La Seleção schierava alcuni dei giocatori più forti: il centravanti Ademir (che avrebbe vinto il titolo di capocannoniere con 8 gol), il virtuoso trequartista Jair e l’interno offensivo Zizinho, che la “Gazzetta dello sport” aveva accostato a Leonardo da Vinci, tanto erano ispirate le trame che le sue giocate dipingevano sull’erba. Insieme avevano vinto l’anno precedente la Coppa America, nella quale l’Uruguay era finito al sesto posto, perdendo fra l’altro per 5-1 proprio con il Brasile. La Celeste stava infatti ricostruendo la sua squadra.

Durante gli anni Quaranta, la Federazione colombiana aveva messo sotto contratto i migliori giocatori sudamericani, fra cui l’argentino Alfredo Di Stefano.  Per prendere quei giocatori, come veicolo di affermazione nazionale, la Colombia aveva rotto con la FIFA e i calciatori accettavano di arricchirsi al prezzo di rinunciare alla loro nazionale di origine. I migliori uruguayani, alla ricerca di ricchi ingaggi, partirono; al contrario, di fronte alla prospettiva di vincere il Mondiale casalingo, i brasiliani rimasero tutti.

Inoltre, il 16 luglio 1950, la partita era in programma nel nuovo “Maracanã” di Rio De Janeiro, stipato di oltre 200.000 tifosi esaltati, che avrebbero rappresentato il dodicesimo uomo in campo per i padroni di casa. Fu allora che entrò in scena il pacato, ma indomito Obdulio.

Prima della partita, Manuel Caballero, il console uruguayano, distribuì ai giocatori le copie del giornale “O Mundo”, che sotto una foto della squadra brasiliana titolava “Ecco i campioni del mondo”, accompagnando il gesto con l’offerta delle condoglianze. Varela prese la sua copia e, davanti ai compagni, ci orinò sopra. Quando uscirono dallo spogliatoio sentirono il ruggito minaccioso del gigantesco stadio e i giovani esitarono. Toccò al capitano spronarli con una voce che proveniva dai recessi più profondi della sua anima battagliera: «Adesso andiamo in campo e giochiamo da uomini. Non guardate in alto, non guardate mai le tribune. La partita si gioca sul campo e quaggiù loro sono undici proprio come noi!».

Del modo in cui l’Uruguay sfilò al Brasile un titolo già vinto esistono poche immagini e di pessima qualità e di ciò che accadde dentro lo stadio esistono tante versioni differenti quanti erano i presenti. Per questo lo scrittore Carlos Heitor Cony smise di credere quel giorno: «Non ho mai ascoltato due persone che descrivessero in modo uguale il gol di Ghiggia, come posso dunque dare credito a un gruppo di apostoli che dissero di aver visto resuscitare Gesù Cristo in un luogo deserto e oscuro?».

Lo squadrone che sapeva solo vincere impiegò solo trenta secondi a minacciare la porta di Gastón Máspoli, che sventò il pericolo, così come fece un’altra dozzina di volte, strozzando in gola alla torcida l’atteso urlo di gioia. L’Uruguay c’era, ma giochicchiava, rosicchiando minuto dopo minuto sul cronometro. Fu così che il primo tempo si concluse sullo 0-0.

Alla ripresa del gioco, in soli 80 secondi, si compì l’inevitabile: Zizinho recuperò a centrocampo e smistò per Ademir, che fece spazio all’accorrente Friaça, il cui tiro superò l’incolpevole Máspoli. Lo stadio esplose in una festa carnevalesca, assaporando l’imminente pienezza del trionfo. Nel mezzo di quel baccanale irrefrenabile, Varela raccolse la palla dal fondo della rete, se la mise sotto il braccio e si incamminò con lentezza esasperante verso l’arbitro inglese George Reader, cui domandò spiegazioni sul gol. Pretendeva un fuorigioco, poiché aveva visto il guardalinee muovere la bandierina. In realtà, stava solo cercando di raffreddare il ribollente entusiasmo degli avversari. Con il suo spagnolo imbastardito nei sobborghi di Montevideo, questionava con quel maestro di scuola venuto da oltreoceano e che parlava solo inglese. Imperturbabile alle intemperanze della folla e alle proteste dei giocatori brasiliani, Varela tenne duro finché la torcida si raffreddò: «Quando ricominciammo a giocare, loro erano come accecati, non vedevano neanche più la porta, tanto erano furibondi».

E lì, cominciò una partita diversa. L’Uruguay non si gettò in avanti per recuperare lo svantaggio, non mutò la sua impostazione difensivista, ma impercettibilmente e inesorabilmente avanzò il proprio raggio d’azione. Quasi alla metà del secondo tempo, Varela intercettò l’ennesimo pallone e aprì il gioco verso Ghiggia, che sfuggì al laterale sinistro Bigode e si involò verso il fondo. Con l’angolo per il tiro ormai troppo stretto, mise al centro un’invitante cross a rientrare, sul quale si avventò Schiaffino che spedì la palla alle spalle del portiere Barbosa.

Le condizioni ora erano cambiate e Obdulio avvertiva la paura che dalle tribune era scesa a bloccare le azioni dei brasiliani. La moltitudine vociante ammutolì e il silenzio mise benzina nel motore della Celeste: «Si poteva sentire anche il volo di una mosca – ricordò Rivadavia Correia Meyer, il presidente della Federcalcio brasiliana – Il silenzio era rotto soltanto dal fischio dell’arbitro e dalle grida di Obdulio». Alle 16.38 del 16 luglio, Perez e Ghiggia si impegnarono in una rapida triangolazione che spinse la veloce ala oltre il solito Bigode. Barbosa attese la corsa dell’avversario e memore della prima rete fece un passo verso il centro dell’area, scoprendo il primo palo, sul quale Ghiggia direzionò il fendente. Barbosa balzò all’indietro, sfiorò il pallone e ricadde, convinto di averlo deviato. Quando si rimise in piedi, vide il pallone adagiato oltre la linea bianca.

L'Uruguay campione, Varela è il primo in piedi da sinistra

L'Uruguay campione, Varela è il primo in piedi da sinistra

Finì così, 2-1 per l’Uruguay. Nella quiete disperata di un’intera nazione in lacrime, Jules Rimet si ritrovò con la coppa d’oro in mano e nessuno a cui consegnarla. Niente banda, né guardia d’onore, né microfoni: il cerimoniale non aveva previsto l’irrealizzabile. Alla fine, imbarazzato e contornato da sguardi muti e sgomenti, si imbattè nello statuario Varela e gli porse il trofeo senza enfasi, quasi furtivamente, omettendo qualsiasi parola di congratulazioni.

Il capitano uruguayano passò la serata con un amico brasiliano, bevendo birra nei bar di Rio, affollati da un’umanità affranta che mescolava il pianto all’alcool. Solidarizzò con gli sconfitti e li abbracciò a decine nel vano tentativo di consolarli, rammaricandosi per la rabbia che aveva provato di fronte ai 200.000 del “Maracanã” e ripromettendosi che mai più in vita sua avrebbe rovinato la festa di un intero paese, il quale prese a esercitarsi nel misurare la portata del lutto che doveva sopportare.

Perdigiorno e imbianchini, impiegati e giornalisti, cantanti e scrittori si impegnarono per sondare gli abissi in cui la Celeste li aveva sprofondati e le conseguenze funeste che ne sarebbero derivate, visto che si trattava di un popolo che facilmente confondeva il calcio con la nazione, la cui grandezza, dell’uno e dell’altra, il trionfo nella Rimet avrebbe dovuto sancire. Solo a oltre mezzo secolo di distanza, il decano dei giornalisti brasiliani, João Máximo, uno degli ultimi testimoni oculari ancora vivente, ha potuto affermare con qualche fondatezza che da quel 16 luglio del 1950 il popolo brasiliano cominciò, o meglio, ricominciò a distinguere le vittorie della nazionale dal destino del paese, imparando che vincere o perdere un Mondiale non cambia nulla nella vita delle persone.

Speciale Mondiali 2014