Il viale del tramonto di Giancarlo Antognoni

La foto della Fiesole il giorno del suo rientro di Giancarlo Antognoni

Mi ricordo di voi, eravate grande nel cinema muto…

Io sono ancora grande, è il cinema che è diventato piccolo!

William Holden e Gloria Swanson in “Il viale del tramonto”

Mentre i tifosi viola si godono il quarto posto in campionato e l’unanime apprezzamento della critica per una squadra che coniuga risultati e bel gioco, la mente ritorna a trent’anni fa esatti, quando un’altra Fiorentina, altrettanto bella e più competitiva di quella allenata dal giovane e risoluto Vincenzo Montella, vide tramontare le speranze di raggiungere il terzo Tricolore della sua storia, nello stesso momento in cui il suo alfiere più amato imboccava il mesto viale del tramonto, dopo l’ennesimo colpo della sfortuna.

È il 12 febbraio 1984, al Comunale di Firenze si gioca la quarta giornata di ritorno fra i viola e la Sampdoria di Renzo Ulivieri. All’inizio del secondo tempo, la Fiorentina conduce per 1-0, grazie a una rete che Giancarlo Antognoni ha segnato su punizione, che l’arbitro Mattei ha fatto ripetere per ben tre volte scatenando le proteste dell’irascibile tecnico blucerchiato. Su un veloce capovolgimento di fronte, la palla schizza verso il limite dell’area degli ospiti, attirando l’intervento del capitano viola e del libero Luca Pellegrini. Lo scontro li lascia entrambi a terra. Antognoni urla di dolore sorreggendosi la gamba destra il cui piede pende innaturalmente verso il basso. I compagni si avvicinano e distolgono lo sguardo con le mani nei capelli, lo stadio ammutolisce: appena tre anni prima, sempre sotto la curva Ferrovia, Antognoni aveva subito un arresto cardiaco dopo una ginocchiata alla tempia da parte di Silvano Martina, portiere del Genoa, e solo la respirazione bocca a bocca praticatagli con prontezza di spirito dal massaggiatore Raveggi lo aveva strappato alla morte. Stavolta la sua vita non è in gioco, ma la diagnosi è ugualmente impietosa: frattura scomposta di tibia e perone.

I compagni proseguirono vincendo quella partita per 3-0 e insediandosi al secondo posto in classifica, a soli tre punti dalla capolista Juventus. Nel dopo-partita, l’allenatore Giancarlo De Sisti dichiarò che avrebbe preferito una sconfitta piuttosto che perdere il capitano. Fu facile profeta: la domenica dopo, la Fiorentina perse malamente a Udine e quella ancora dopo non andò oltre il pari nel derby contro il Pisa, raddoppiando il distacco dal vertice e ammainando le speranze di lottare per il titolo.

Antognoni fu sottoposto a un’operazione di riduzione della frattura, con inserimento di una placca metallica per la tenuta degli arti spezzati. Molti giornali scrissero che la sua carriera era in serio pericolo. I medici lo incoraggiarono ipotizzando tre mesi di convalescenza, una lenta rieducazione e la possibilità di tornare ad allenarsi in estate, in vista del nuovo campionato. In realtà, quella ottimistica e forse frettolosa tabella di recupero fu ampiamente disattesa: l’estate arrivò senza che fosse possibile nutrire vere speranze di un imminente ritorno in campo; la dirigenza acquistò il brasiliano Socrates, implicitamente confessando il proprio scetticismo intorno al pieno recupero dell’idolo dei tifosi toscani; in novembre, nove mesi dopo l’incidente, un nuovo controllo posticipò i termini del possibile rientro e Antognoni fu sul punto di gettare la spugna; a un anno esatto dalla frattura non fu possibile fare previsioni attendibili.

Finì per saltare l’intera stagione 1984-85.

Grazie all’indomita tenacia, Antognoni rientrò 21 mesi dopo la frattura, il 24 novembre 1985, in occasione di Fiorentina-Bari. Si alzò dalla panchina salutato dal boato della folla, poi sostituì il suo giovane alter ego, quel Roberto Onorati che in futuro non avrebbe saputo corrispondere a tante aspettative. Col suo passo elegante, Antognoni fece rotta verso il centro del campo per riprendere in mano le redini del gioco. Gettò solo una rapida occhiata verso gli spalti per non cedere all’emozione: la “Fiesole” aveva srotolato uno striscione lungo 107 metri, con su scritto “Niente ti ha distrutto, sei come il sole, risorgi e illumini tutto”.

Dopo pochi secondi, il suo destro fatato tagliò l’aria per scagliare un pallone invitante verso l’area di rigore. Un brivido corse lungo la schiena dei 40.000 del Comunale che rividero in azione la classe e la magia dell’unico numero 10. Era sempre bello come lo ricordavano, ma l’allenatore Aldo Agroppi non credeva più che potesse tornare quello di un tempo e fra i due sorsero profonde incomprensioni. L’anno successivo, con Eugenio Bersellini in panchina, Antognoni declinò lentamente, regalando rari sprazzi della vecchia eleganza e totalizzando quattro reti in 19 partite. Tenne a battesimo il promettente Roberto Baggio, che raccolse la sua eredità nel cuore dei tifosi, anche se per poco, visto che il “Divin codino” non resistette alle lusinghe della Juventus e vi si trasferì solo tre anni dopo.

Poi, stabilì di togliere il disturbo. Consapevole di non poter garantire il rendimento cui era abituato e di rappresentare al contempo un totem ingombrante nello spogliatoio, accettò le offerte del Losanna e decise di chiudere la carriera in Svizzera, dove avrebbe avuto assicurato il posto in squadra. A Firenze, tornò il 25 aprile 1989, per la partita dell’addio: per salutare l’eroe di Firenze, si radunarono gli ex campioni del mondo di Spagna ’82, opposti alle tante stelle straniere che Giancarlo aveva incontrato nella sua lunga carriera. Di fronte a oltre trentamila spettatori, Antognoni calpestò per l’ultima volta l’erba che era stata la sua casa per quindici anni e ricevette il solo scudetto di cui si sia mai fregiato in una carriera tormentata dalla mala sorte: l’amore imperituro dei tifosi viola e di tutti gli amanti del bel calcio.

Paolo Bruschi