"Si sta per decidere che per 20 anni dovremo fare ulteriori tagli alle spese e prevedere probabilmente ulteriori aumenti della pressione fiscale, per rispettare un parametro arbitrario stabilito anni fa da qualche burocrate. Il giro di vite interesserà anche i comuni, ma nessuno ne parla e, nonostante le solite dichiarazioni a vanvera di Renzi, il Pd vota contro al nostro ordine del giorno.
Alzi la mano chi nelle ultime settimane ha visto anche solo un trafiletto o un qualche servizio televisivo menzionare il Fiscal Compact. In un clima già da campagna elettorale inoltrata, non passa giorno senza leggere di alleanze che si creano e si disfano, di questo o quell’esponente politico che passa da uno schieramento all’altro, di sondaggi e intenzioni di voto.
Questo per non parlare delle infinite discussioni intorno alla legge elettorale recentemente approvata a colpi di fiducia. Peccato che qualsiasi futura maggioranza parlamentare e qualsiasi governo dovesse insediarsi all’indomani del voto rischia di essere, se non commissariato, per lo meno fortemente limitato nelle proprie scelte. Se lo scopo principale di un governo è infatti quello di gestire e indirizzare le risorse disponibili per attuare determinate politiche, il futuro verrà deciso altrove. Entro la fine dell’anno infatti, il Parlamento dovrà ratificare un trattato noto con il nome di Fiscal Compact.
Tra le diverse disposizioni, questo trattato prevede l’obbligo di riportare entro 20 anni il rapporto tra debito pubblico e PIL alla fatidica soglia del 60%, uno dei parametri degli accordi siglati a Maastricht all’inizio degli anni ’90. Parametri fortemente criticati per la loro arbitrarietà, a maggior ragione perché da applicarsi indistintamente, senza considerare le specificità di un Paese, la fase economica o la situazione sociale e occupazionale.
L’Italia ha oggi un rapporto tra debito e PIL superiore al 130%. Sarebbe lungo il discorso su come si è arrivati a tale percentuale. Basti ricordare che da oltre il 120% della metà degli anni ’90, si è scesi al 103% nel 2008, per poi registrare un’esplosione che è seguita, in Italia come nella maggior parte delle economie occidentali, allo scoppio della bolla dei mutui subprime. In altre parole una crisi della finanza privata il cui conto è stato scaricato su quella pubblica.
Al culmine del paradosso, la prima è ripartita a pieno ritmo, inondata di soldi tramite quantitative easing e altre politiche monetarie, mentre alle finanze pubbliche vengono imposti tagli e controlli durissimi. Ancora peggio, con un ribaltamento dell’immaginario collettivo le responsabilità delle attuali difficoltà vengono addossate ai debiti pubblici. Tale ribaltamento di cause e conseguenze della crisi è la giustificazione per volere introdurre un trattato, con forza superiore alle legislazioni nazionali, che ci imporrà di scendere dal 130% al 60% in venti anni.
Con un calcolo estremamente semplificato significa 1/20 (130-60)% = 3,5% del PIL da risparmiare. Se ricordiamo le continue questue fatte da ogni governo per strappare qualche decimale di PIL in più all’Europa (la famosa flessibilità), ci rendiamo bene conto di quanto sia assurdo quello che dovremmo impegnarci a garantire, rinunciando di fatto a qualsiasi margine di manovra dei prossimi governi allo scopo di realizzare avanzi primari, ovvero sempre più tasse e sempre meno servizi erogati.
Questo nella migliore delle ipotesi. Perché in caso di una nuova, probabile, flessione dell’economia, rispettare il Fiscal Compact significherebbe un disastro sociale ed economico. Quello che però colpisce di più è l’affermazione definitiva della tecnocrazia sulla democrazia, la visione dell’economia come una scienza esatta, guidata da regole matematiche dove il benessere dei cittadini o l’ambiente diventano le variabili su cui giocare. Indipendentemente da cosa ci riserva il futuro, il debito va ridotto a marce forzate e questo va garantito a ogni costo. Che il costo sia disoccupazione, perdita di diritti, impossibilità di investire per una trasformazione ecologica dell’economia, non è un problema, non può essere nemmeno materia di discussione.
Tutto questo avrà forti ripercussioni a livello locale, perché si tradurrà in una riduzione delle risorse destinate ai comuni da parte del governo centrale, a scapito di servizi essenziali per i cittadini. È per questo motivo che noi di Fabrica Comune per la Sinistra abbiamo ritenuto importante portare la discussione in consiglio comunale lo scorso 23 ottobre, con un ordine del giorno contro il Fiscal Compact che ha visto il voto favorevole di tutte le opposizioni (anche di chi invece aveva votato a favore del Fiscal Compact ai tempi del governo Monti), mentre la maggioranza Pd ha espresso voto contrario. Risultato a dir poco sorprendente, visto che in altre città italiane, come Aosta, un ordine del giorno simile ha ottenuto l’approvazione unanime anche da parte dei consiglieri del Pd.
Vogliamo ricordare che il segretario del Pd, Matteo Renzi, ha sostenuto la necessità di rivedere il trattato, mentre il dem Roberto Gualtieri, presidente della Commissione Economia del parlamento europeo, ha espressamente definito il Fiscal Compact un “trattato sbagliato due volte: nella forma, perché intergovernativo; e nel contenuto… perché non riconosce la funzione fondamentale degli investimenti pubblici”.
Invitiamo la cittadinanza tutta a sostenere la petizione lanciata da Attac Italia, perché è a dire poco incredibile assistere al livello di un dibattito concentrato sulle presunte responsabilità dei migranti, mentre in un Paese con 4,8 milioni di persone in povertà assoluta stiamo affermando che ci imponiamo vent’anni di alta pressione fiscale e tagli alla spesa pubblica e ai diritti fondamentali. Il problema non è e non può essere “prima gli italiani”. Il problema è se sia possibile sancire che la vita delle persone – di tutti noi – sia sacrificabile nel nome di una percentuale decisa decenni fa da qualche burocrate.
Per informazioni e per firmare la petizione: www.stopfiscalcompact.it"