Abbiamo trovato un varco in Islanda, ossia una piccola comunità toscana che vive, studia e lavora a Reykjavík. Dopo Maurizio Tani ci siamo messi in contatto con Eleonora Pancetti, studentessa da Carrara. Per lei le Apuane non sono altrettanto affascinanti come i fiordi islandesi, ma la mancanza di casa come sempre è un punto fisso per chi vive a tantissimi km di distanza. Ed è proprio nella storia e nelle tradizioni che paradossalmente l'Italia e l'Islanda sono unite nonostante la loro diversità. Ecco l'intervista.
Nome e Cognome: Eleonora Pancetti
Anni: 26, quasi 27
Cresciuta a: Carrara
Studi: Laurea Magistrale in Lingue e Letterature Moderne Euroamericane
Residenza e professione: Reykjavík. Studentessa e cameriera, ma ho lavorato anche come insegnante di italiano.
Lavoro in Italia: Studentessa, hostess, promoter, senza contare vari lavoretti saltuari.
Prima esperienza all'estero: Vacanza studio a Dublino a 17 anni, poi Erasmus a Berlino durante la Triennale.
Perché ha deciso di andare all'estero?
Da quando ho avuto l’occasione di vivere all’estero per un periodo prolungato, durante il mio semestre Erasmus, ho capito che per me vivere a contatto con un’altra cultura era un’esigenza fondamentale. Ho studiato Lingue anche per questo: tra i miei ricordi migliori c’è un pomeriggio primaverile berlinese in cui, nel prendere la U-Bahn a Neuköll, mi sorprendevo a sentire intorno a me un’altra lingua soltanto. C’è un piacere sottile nel sentir parlare una lingua diversa dalla propria, nel capirla, nel tradurla nella propria testa. Lasciando da parte le ragioni sentimentali, ho scelto un percorso di studi che mi ha condotto per forza di cose all’estero, ed è una scelta che non ho mai rimpianto. Al momento sto concludendo un Master in Medieval Icelandic Studies che mi ha portato fino in Islanda, ed è stata la fascinazione per la cultura di questa terra che ha guidato le mie scelte. Sono arrivata in Islanda la prima volta nell’autunno del 2015 con una borsa di studio, per poter lavorare alla tesi magistrale. A fine dicembre sono rientrata in Italia, mi sono laureata, per poi ripartire per cominciare il Master ad agosto 2016. Da settembre 2017 invece mi sposterò in Austria, a Vienna, grazie al bando MIUR per l’assistentato di lingua italiana. Posso dire che il mio periodo all’estero continuerà ancora per un po’.
Quali sono le principali differenze fra il mondo del lavoro italiano e quello estero?
Bisognerebbe distinguere tra il mondo del lavoro in altri Paesi europei, come la Germania, e in un contesto particolare come è l’Islanda. Ho riscontrato che più a Nord si va, più l’atmosfera sul posto di lavoro è tranquilla, quasi domestica. In Italia abbiamo un senso della formalità in ambiente lavorativo che in Islanda è totalmente sconosciuto: anche in istituzioni accademiche e universitarie è ammissibile presentarsi al lavoro in vestiti informali, portare pantofole mentre si lavora e avere numerosi momenti di socialità tra colleghi, come lunghe pause caffè di interi uffici o una mezz’ora yoga mattutino. In generale l’atmosfera sul posto di lavoro in Islanda è molto più rilassata, rispetto al contesto italiano. In Germania invece mi sono confrontata con un ambiente meno rilassato e meno domestico, in cui l’attenzione alla formalità sul luogo di lavoro era centrale, almeno tra colleghi. Ammetto che però lavorando in scuola di lingua come tirocinante mi ero abituata presto agli studenti che si presentavano a lezione in ritardo, coi thermos di caffè o bottigliette di Club Mate, snack vari da consumare tra un esercizio e l’altro. In Islanda invece, come credo in gran parte del Nord Europa e del mondo anglosassone, è socialmente accettato sedersi in classe e lavorare a maglia o a uncinetto durante la lezione, tutto questo di fronte al professore che continua imperturbabile a spiegare.
La vita e il lavoro all'estero sono diversi dall'idea che ti eri fatta prima di partire?
Non si scriverà mai abbastanza di quanto sia difficile talvolta l’esperienza dell’espatrio. Ormai credo di avere una certa esperienza in traslochi, scali in aeroporti, viaggi in aereo più o meno lunghi (in Islanda non ci sono voli diretti a parte d’estate) perdipiù a orari improbabili. Eppure ogni volta che si parte c’è sempre una punta di amarezza a ricordarti di tutte le persone che lasci a casa: la famiglia, gli amici, gli affetti, semplicemente le cose quotidiane e familiari che ti hanno accompagnato per gran parte della vita. Se si affronta da soli, poi, l’espatrio è spesso un salto nel buio, e le prime settimane sono sempre difficili, si è preda dei classici momenti in cui si mette in discussione ogni scelta e ci si domanda perché si è deciso di prendere quell’aereo. Personalmente, l’esperienza più difficile con cui mi sono confrontata vivendo all’estero è la solitudine. Vivere fuori ti scaraventa fuori dal tuo ambiente, perdi la presenza costante degli amici di sempre, spesso i riferimenti culturali sono stravolti, banalmente spesso anche il nostro senso dell’umorismo non è recepito come a casa. Prima dell’Erasmus ero piuttosto timida e chiusa, ma ho capito in fretta che per sopravvivere all’estero è necessario aprirsi alle altre persone, buttarsi, anche se spesso la lingua zoppica, e quel dire qualcosa in inglese o in tedesco non sarà mai al cento per cento come esprimersi in italiano. Siamo animali sociali, credo sinceramente che nessun uomo sia un’isola. Forse vivere su un’isola poco popolata in mezzo all’Atlantico mi ha insegnato anche questo: è necessaria una rete di conoscenze su cui contare, un gruppo di persone speciali che può ricordarti che qualunque brutta giornata all’estero non è poi così grigia, se affrontata insieme, e fidatevi che spesso un Paese straniero non è tenero con chi cerca d’inserirsi.
Cosa ti manca dell'Italia?
A parte le classiche risposte da italiano all’estero -il cibo, il clima mite, il sole, inesauribili fonti di lamentele per ogni italiano all’estero che conosco-, posso dire dopo un anno in Islanda che ho avvertito altre mancanze. Oltre agli amici di sempre e alla famiglia, in Islanda soprattutto ho sentito la mancanza della mia cultura. Reykjavík è una città graziosa ma molto piccola, i panorami idilliaci invernali non sempre colmano il vuoto dell’arte, della storia, dell’architettura, dei colori e del paesaggio italiano. L’Islanda è famosa per la sua natura spettacolare e unica, non per il suo vissuto storico. In Italia ogni angolo di strada mi ricorda il contatto con la storia del mio Paese, con le generazioni venute prima di me, con altri uomini e donne di altre epoche. In Islanda è più difficile trovare questo contatto, perché è un Paese dalla storia molto giovane, e dalla lingua ostica, rimasto per molto tempo ai margini dell’Europa. È solo studiando la letteratura medievale islandese che ho ritrovato un contatto simile, un segno che, dopotutto, ovunque siano nel mondo gli esseri umani amano raccontarsi e tramandare storie.
Torneresti a lavorare in Italia?
È una domanda che mi pongo spesso, forse più nei giorni difficili che in quelli facili. Non so ancora per quanto altro tempo vivrò all’estero, e so che magari un giorno le mie priorità cambieranno e vorrò tornare a casa per fermarmi e avere uno stile di vita più stabile. So che mi piacerebbe fare ricerca e intraprendere la carriera accademica, un mestiere che in Italia al momento non gode di particolare fortuna, quindi per adesso l’estero mi offre qualche chance in più.
Hai qualche aneddoto sulla permanenza all'estero?
Da nessuna parte, neanche nella remota Islanda, ci siamo liberati dello stereotipo italiano di “It’s a-me, Mario!”, pizza, spaghetti, mandolino, vari gesti sguaiati con le mani e inglese sgrammaticato. Ogni volta che mi presento e dico che sono italiana, la scenetta si ripete puntualmente da parte di un qualunque interlocutore, indipendente dalla nazionalità. Fateci caso: credo che capiti raramente che con francesi, tedeschi, spagnoli, russi, americani o inglesi ci si permetta di scherzare sulla loro origine poco dopo averli conosciuti, arrivando a dipingerli come macchiette. Purtroppo è una cosa che mi capita di continuo. Il fatto di lavorare part-time come cameriera in una pizzeria non aiuta a contrastare il cliché, ahimè, anzi di solito fa sganasciare certi clienti ancora di più.
