Mercoledì delle Ceneri, l'omelia del cardinal Bertone

Giuseppe Betori

OMELIA

La Quaresima viene offerta dalla Chiesa come tempo privilegiato di conversione, di quel ritorno al Signore che con tanta insistenza, tramite il profeta Gioele, Dio chiede al suo popolo: «Ritornate a me con tutto il cuore, con digiuni, con pianti e lamenti. Laceratevi il cuore e non le vesti, ritornate al Signore, vostro Dio, perché egli è misericordioso e pietoso, lento all’ira, di grande amore» (Gl 2,12-13).

In che cosa consiste questa conversione? Quali forme deve assumere tale ritorno al Signore? Non mancano certamente, nel testo profetico, i richiami ad alcuni gesti liturgici comunitari: il digiuno, il pianto e il lamento. Ma allo sguardo del profeta questi gesti esteriori si trasformano in segni di atteggiamenti interiori, che devono coinvolgere il cuore, cioè il centro stesso della persona, tutto se stessi.

Questa medesima logica illumina, con ancor maggiore profondità, la pagina evangelica, l’insegnamento di Gesù. Egli non rifiuta le pratiche penitenziali che caratterizzavano la religiosità degli uomini pii del suo tempo: elemosina, preghiera e digiuno. Sono anche le pratiche che, per tale ragione, la Chiesa, nei secoli, ha privilegiato come segni che qualificano il tempo quaresimale, e vengono quindi proposti al nostro impegno anche oggi, nel cammino che si apre di fronte a noi verso la Pasqua.

Come vivere questi gesti e come farli diventare espressione di un cuore convertito e non semplicemente manifestazioni di una pratica religiosa esteriore, ci è insegnato con forza da Gesù a partire dalla contrapposizione con cui egli li introduce: «State attenti a non praticare la vostra giustizia davanti agli uomini per essere ammirati da loro, altrimenti non c’è ricompensa per voi presso il Padre vostro che è nei cieli» (Mt 6,1). La devota religiosità, secondo Gesù, deve lasciare il posto alla pratica della giustizia e le forme penitenziali ne devono essere espressione.

Cosa sia la giustizia che dobbiamo praticare, Gesù lo illustra lungo tutto il discorso della montagna, di cui il testo del vangelo di Matteo che abbiamo oggi ascoltato, costituisce una sezione rilevante. Giustizia per Gesù non si identifica con i comportamenti che presiedono ai corretti rapporti sociali e a un’equa distribuzione dei beni. La parola “giustizia” appare nel discorso della montagna la prima volta nella quarta beatitudine, in cui Gesù ha dichiarato «Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati» (Mt 5,6), per riprendere questo concetto subito dopo nell’ottava beatitudine: «Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli» (Mt 5,10). Poi Gesù ha chiesto ai suoi discepoli di praticare una giustizia superiore a quella degli scribi e dei farisei, rileggendo nell’estensione e nella radicalità i precetti della legge (cfr. Mt 5,20), e in seguito invita a dare l’assoluta priorità a Dio e alla sua giustizia, senza lasciarsi soggiogare dalla ricerca di sicurezze umane (cfr. Mt 6,25). Nel pensiero di Gesù la giustizia altro non è che l’adempimento integro e generoso della volontà di Dio, la cooperazione al compimento del suo disegno di salvezza per l’umanità.

Porsi dalla parte di Dio, condividere in modo assoluto la sua mente e il suo cuore, questo è il senso della conversione che ci è chiesta e ciò che riscatta le opere penitenziali dalla possibile alterazione in opere puramente esteriori. Esse non ci vengono chieste per giustificarci davanti agli uomini, ma per renderci disponibili ad accogliere la giustificazione che viene a noi come dono da Dio. L’uomo di fede è colui che risponde a Dio e non alla logica umana; egli non si conforma al pensiero dominante, nella ricerca di un riconoscimento sociale da parte di altri uomini, ma offre la propria libertà alla volontà del Padre.

La spinta al conformismo, sia esso religioso che sociale, è una tentazione forte, che rischia ogni giorno di farci perdere il giusto rapporto con Dio, in forza del bisogno di una rassicurazione esteriore. Sia dentro la comunità ecclesiale come pure, e ancor più, dentro la convivenza sociale, noi siamo continuamente spinti a evitare l’emarginazione e l’esclusione. Di qui nascono i compromessi e la perdita dell’identità credente, che comporta invece sempre un’alterità profonda rispetto a ogni schema dominante. L’appartenenza a Dio implica un severo discernimento di tutto ciò che può entrare in contrasto con la sua volontà, a cui solo dobbiamo obbedienza, se

vogliamo sentirci figli del Padre della misericordia e fratelli di quel Figlio unigenito che non ha ricusato la Croce per fedeltà al disegno del Padre suo.

Provando a rileggere in questa prospettiva le pratiche penitenziali della pagina evangelica si aprono davanti a noi percorsi assai impegnativi.

Se l’elemosina non vuole ridursi all’elargizione di qualche spicciolo che abbiamo d’avanzo, dobbiamo pensare a lasciarci coinvolgere in progetti non di semplice donazione del superfluo al bisognoso, ma di vicinanza, di accoglienza, di condivisione della sua sofferenza, fino a prospettare un impegno che giunga combattere i meccanismi sociali ingiusti che generano le povertà, perché, privilegiando il profitto, dimenticano di porre l’uomo al centro delle scelte economiche e politiche.

Se la preghiera non vuole confinarsi nella recita di qualche formula e in qualche pratica devozionale, dobbiamo aprirci a un vero dialogo con Dio che parte dall’ascolto della sua parola, quella che egli ci ha affidato mediante la Chiesa nelle Sacre Scritture, ma anche quella che continua a rivolgerci attraverso la storia, in quanto accade attorno a noi e nella testimonianza, di attese e di sollecitazioni, che ci offrono gli altri, soprattutto i più poveri. Un ascolto che generi poi la nostra risposta, fatta certamente di parole, ma ancor più di fatti di vita, di esperienze di gratuito amore e di generoso perdono.

Se il digiuno non vuole essere confuso con una pratica salutistica o anche solo con un mezzo con cui esibire un’affettata religiosità davanti agli altri, abbiamo bisogno di coglierne l’istanza profonda di gesto con cui si esprime la nostra libertà di fronte a qualsiasi bisogno materiale che voglia imporsi come ciò che dà pienezza alla nostra esistenza. A colmare la nostra vita deve essere infatti soltanto Dio, e a lui dobbiamo consegnarci in assoluta disponibilità, senza che si possa mettere in dubbio che solo lui è in grado di spegnere la nostra sete e solo in lui riconosciamo il cibo che sazia la nostra esistenza. Un richiamo forte all’essenzialità e alla centralità della fede nella vita del credente.

Un’ultima considerazione. La nostra Quaresima segna anche l’inizio per la nostra Chiesa fiorentina di un cammino che, aderendo all’invito che un anno e mezzo fa Papa Francesco fece in questa cattedrale, vuole ripercorrere, in forma sinodale, tale da coinvolgerci tutti, i tratti essenziali della sua esortazione apostolica Evangelii gaudium, al fine di individuare

quali scelte di conversione ci sono chieste dal tempo che viviamo per essere davvero fedeli al vangelo di Gesù. Esorto tutti a raccogliere questo invito e a offrire la propria partecipazione nelle forme che gli saranno richieste. Insieme alla consueta campagna di carità promossa dalla nostra Caritas diocesana, che ha come specifica finalità il sostegno a famiglie in difficoltà economiche segnalate dalle parrocchie, anche questo avvio del cammino sinodale fa parte quest’anno del nostro impegno quaresimale.

Ufficio stampa Arcidiocesi di Firenze

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