I calciatori italiani, una specie in via di estinzione

Con la chiusura del mercato di gennaio, ritorna d'attualità uno studio del CIES che certifica la costante ascesa degli stranieri nel campionato di serie A


L’ultimo studio demografico sull’Europa del pallone, pubblicato un paio di mesi fa dall'Osservatorio calcistico del Centro Internazionale di Studi sullo Sport di Neuchâtel, conferma che il tratto distintivo del tempo presente è la globalizzazione dei campionati. Sempre più giocatori vengono acquistati e sempre meno sono allevati nei vivai; i “contratti a tempo indeterminato” sono ormai una rarità, visto che la permanenza media di un calciatore nel club è di poco superiore a due anni e ogni stagione 11 nuovi innesti sono mediamente inseriti nella rosa; infine, la percentuale di stranieri è ovunque una porzione rilevantissima, con la sola eccezione dei derelitti tornei dell’Est europeo.

La vorticosa mobilità degli atleti ha creato un fiorentissimo mercato planetario, nel quale le logiche commerciali e i diktat di poche centrali di intermediazione paiono aver soppiantato le ragioni tecnico-tattiche delle compravendite. In questo quadro, spiccano i numeri italiani. Nella stagione corrente, dei 530 calciatori di serie A, ben il 56,2% è straniero e il dato cresce addirittura al 57,7% se si considerano i minuti giocati – l’Udinese si affida a pedatori importati per il 98,9% del tempo di gioco, con il Sassuolo all’estremo opposto con il 13,7%. D’altra parte, solo 57 giocatori nati entro i confini patri hanno scelto di emigrare in una delle 31 maggiori leghe europee, una cifra ben lontana dai 469 brasiliani, i 312 francesi, i 201 spagnoli o i 149 tedeschi, e che ci colloca dietro a tutte le nazioni più forti. Il quadro non è significativamente mutato dopo la chiusura della finestra di mercato di gennaio, con i soli Ranocchia e Gabbiadini che hanno preso la strada dell’estero, approdando nella Premier League.

Manolo Gabbiadini è appena passato dal Napoli al Southampton

Manolo Gabbiadini è appena passato dal Napoli al Southampton

La riluttanza dei nostri calciatori a espatriare non si accorda con la ripresa dell’emigrazione dei giovani italiani, che costituiscono oltre un terzo dei connazionali in fuga per motivi di lavoro. Se si sta alla larga da spiegazioni psico-sociologiche, del tipo “i calciatori italiani sono dei bamboccioni”, o da ragioni strutturali come l’abbandono dei vivai, che comunque dovrebbero sfornare prodotti almeno adatti ai tornei di minor prestigio, resta che il vero freno all’espatrio è forse un resistente blocco culturale, l’auto-percezione condivisa nell’ambiente che il movimento calcistico italiano sia luogo di approdo di campioni stranieri e non un bacino di talenti per l’estero. È la sua stessa storia che lo afferma. Ai primordi del girone unico, i club nostrani aggirarono il divieto fascista all’acquisto di stranieri, attingendo ai ricchi giacimenti argentino e uruguayano, da cui furono prelevati in gran numero campioni di origini italiane, che trasformati in oriundi regalarono alla nazionale di Vittorio Pozzo i Mondiali del 1934 e del 1938. A partire dagli anni ’50, la legione straniera si ingrossò a dismisura, inducendo il presidente del CONI, Giulio Onesti, a bollare come “ricchi scemi” i presidenti dei club italiani, che offrivano contratti da nababbi a qualunque forestiero e al contempo aprivano colossali falle nei bilanci societari. L’attuale invasione origina, è noto, dalla liberalizzazione del mercato europeo e dalla sentenza Bosman del 1995 e ha ormai generato una situazione al limite dell’assurdo.

È quasi superfluo aggiungere che tali tendenze hanno diminuito i calciatori italiani attivi professionalmente, proprio mentre i club di serie A e della cadetteria aumentavano di numero. Alla metà degli anni ’80, Michel Platini condusse 16 compagni all’ultimo titolo della Juventus trapattoniana: con la “A” a 16 squadre e un massimo di due stranieri in formazione, erano mobilitati poco più di 300 professionisti. Nel giro di pochi anni, sotto l’azione congiunta dei crescenti diritti televisivi, che indussero un incremento delle partite, e del conseguente maggiore dispendio fisico, alimentato pure dall’esasperato atletismo del gioco, gli organici diventarono ipertrofici e i “posti di lavoro” si impennarono. Nel campionato 1994-95, dopo che la Coppa dei Campioni aveva già introdotto la fase a gironi, la serie A era tornata a 18 squadre e la panchina lunghissima del Milan berlusconiano aveva fissato uno standard da tutti imitato, oltre 360 italiani giocarono almeno una gara.

Il nostro movimento calcistico si segnala pertanto per la singolare attitudine a respingere e svalorizzare il proprio capitale umano. Senza una radicale inversione di rotta, che coinvolga la Lega, la Federcalcio e il sindacato dei calciatori, non è azzardato prevederne, più presto che tardi, una discesa nell’irrilevanza.

Paolo Bruschi