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Disabilità, gli Ortolani Coraggiosi: "Cosa facciamo? Lavoriamo"

Dopo l'approvazione della legge sul Dopodinoi si impone una riflessione sul di futuro, sulla qualità di vita a cui hanno diritto le persone affette da disabilità mentale più o meno grave. Una riflessione è importante per tutti noi chiamati a dare risposte a questo diritto. Nella legge sul Dopodinoi è obbiettivo del legislatore “... quello di cercare di evitare l’istituzionalizzazione del disabile, supportando la domiciliarità, realizzando interventi innovativi di residenzialità volti alla creazione di soluzioni abitative di tipo familiare e di cohousing e sviluppando programmi finalizzati a consentire l’acquisizione del maggior livello di autonomia possibile...”

Iniziamo allora a riflettere su ciò che viviamo e su ciò che stiamo già facendo con grandi risultati. Partiamo da lì, dalle “capabilities” del disabile (Biggeri, Bellanca, 2011: 21-50): non solo le disabilità ma anche e soprattutto le capacità.

Le persone che si avvicinano spesso ci domandano “ma cosa fanno gli ortolani coraggiosi?” “lavorano” rispondiamo. Inizia così una chiacchierata , “Che vuol dire lavorano”?... 

Se il paziente, il disabile autistico, il malato psichiatrico, troppe distinzioni si sono dimostrate inutili, se questa persona, dopo anni che viene osservato e “curato” in maniera anche migliore da quanto avveniva 20 anni fa, per l'autismo certamente, viene ancora “curata”, considerandola comunque sempre incapace di qualcosa, di essere, di lavorare, di rappresentarsi, di partecipare, allora mi viene da pensare che tutto il lavoro che viene fatto, “la sua cura”, è studiata in funzione di questa incapacità e della malattia o disabilità che la determina. La “cura” rischia di oggettivare la persona rischiando di ridurlo a numero, a malattia. Noi accogliamo le persone dentro la nostra cooperativa e i nostri ragazzi non lasciano fuori i loro problemi, le loro difficoltà, anzi, ma liberi di essere se stessi, li esternano, li portano a noi e solo così forse li possiamo aiutare. Solo conoscendo li possiamo aiutare, e possiamo conoscerli solo se sono liberi di essere se stessi. Chi crea il malato? A creare il malato, con la sua solitudine (si muore uno alla volta diceva Edoardo) non è sempre e solo la malattia, ma anche la società; spesso, cioè, ci si perde non di fronte non soltanto al proprio vuoto ma da quello prodotto dalla società. Che comprende senza voler offendere nessuno , la famiglia, con il suo martoriato scenario di impotenza, con il suo perenne senso di esclusione, di spaesamento e spesso perché no, di colpa. E così la scienza medica sempre più “esatta” anche attraverso i computer che tutto fanno ci potrà dire quanto sia inabile, in che percentuale, cosa gli manca, ma mai chi è quell'uomo, i suoi desideri, le sue attitudini, del suo bisogno di attenzione. Abbiamo la volontà non di rispondere a bisogni primari ma ai cosiddettibisogni radicali quali libertà, amore, al bisogno di esistere e di essere persona. Occorre restituire a chi spesso è ridotto solo a sofferenza o a emarginazione la possibilità di essere riconosciuto, a priori. Poi di riconoscerli per quello che fanno, siamo spesso quello che riusciamo a fare e siamo riconosciuti per questo, e dobbiamo riconoscerli attraverso una vicinanza che coinvolga che affratelli, obbligandoci a ricercare anche nostre possibilità e complicità nella loro sofferenza e nel loro male. Non trincerarci dietro la consolazione della “fatalità” della vita o pensare che in fondo questi disabili sono dentro la loro malattia e forse non soffrono come soffriremo noi. Noi questo percorso lo facciamo insieme, perché fare insieme fa scappare il male, sconfigge la solitudine, l'isolamento. Diamo un'opportunità di portare la loro sofferenza, il loro problema in mezzo a noi per condividerlo e trovare insieme una strada che serva a tutti noi e a ciascuno di noi, del gruppo. Forse facciamo politica e da Aristotele in poi sappiamo che nel “fare politica” possiamo trovare la misura di noi stessi e dell'altro: “la politica è uscirne insieme” (Don Milani). Siamo obbligati ad un ripensamento etico sulla vita di queste persone. I nostri ragazzi sono spesso o quasi sempre senza voce e spesso senza diritti (“ci si pensa noi” si sente dire). Questo nel mondo dei sofferenti equivale agli apolidi, ai nessuno, ai neri del secolo scorso, a chi è senza stato sociale, famiglia. Vittima di pregiudizi e privazioni e in realtà hanno il bisogno come noi di farsi accettare, con le loro difficoltà e disabilità ma farsi accettare e per farsi accettare bisogna parlare di diritti e di lavoro. E anche di soldi. Perché no. Diritti civili e soldi. Se sono disabile o malato e lavoro comincio a farmi uomo anch'io e così tutti capiscono meglio le ambizioni e gli obbiettivi. Realizzare un'azienda e costruire dentro questa azienda la possibilità che persone con difficoltà diverse possano lavorare e trovare attraverso questo la possibilità di esistere e di rispondere ai propri bisogni radicali di esistenza e di libertà è ciò che cerchiamo di fare ed è ciò che facciamo. 

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