L'inatteso en-plein internazionale della Juventus

Anche i tifosi della Juventus hanno le loro spine. Per esempio, devono sopportare ben magri risultati a livello internazionale, almeno se rapportati all’ammontare di successi domestici, i quali, a parere dei molti anti-juventini, sono così numerosi perché assicurati dal favore degli arbitri. Dove questo non c'è, le vittorie scemano. Nel corso degli anni, la Juventus ha dovuto fabbricare giustificazioni alternative alla discrepanza di risultati dentro e fuori i confini patri.
Alla fine degli anni ‘50, quando le maglie bianconere si ornarono della prima stella grazie alle prodezze di Giampiero Boniperti, John Charles e soprattutto di Omar Sivori, la spiegazione era l’indolenza dell’asso argentino, cui non si potevano chiedere “straordinari infrasettimanali” dopo le usuali fatiche domenicali. Con gli anni ‘60, in piena motorizzazione del paese, le precoci eliminazioni dalle competizioni europee venivano spiegate con l’insufficiente interesse della famiglia Agnelli, ansiosa di monopolizzare il mercato automobilistico interno e pertanto più propensa a dare peso alle vittorie nazionali per scopi pubblicitari. Infine, quando Boniperti si sedette alla scrivania da presidente, pur ammettendo il fastidio per la perdurante astinenza di vittorie all’estero, prese a far circolare la storiella che la serie A era assai più probante di qualunque coppa europea e perciò aggiudicarsi lo scudetto era l'unica misura della vera grandezza. Da ardente tifoso juventino, qual ero da ragazzo, non ci ho mai creduto e volentieri avrei scambiato una manciata di scudetti con uno qualunque dei trofei internazionali che parevano arridere a chiunque, persino a formazioni di ridotto blasone come Ipswich Town, Slovan Bratislava, Dinamo Zagabria, Magdeburgo e Rangers Glasgow.
Alcuni giocatori della Juventus con la coppa vinta a Bilbao: si riconoscono Causio, Bettega, Gentile, Cuccureddu, Spinosi e Furino
Eppure, trent’anni fa e in un lasso di tempo di appena otto anni, la Juventus divenne la prima squadra europea a conquistare tutti i trofei internazionali, dopo aver soffiato la Coppa Intercontinentale all’Argentinos Juniors di Claudio Borghi e Jorge Olguin. L’astinenza era stata interrotta dalla vittoria della Coppa Uefa ai danni dell’Atletico Bilbao nel maggio 1977, al termine di una stagione trionfale che fruttò ai bianconeri anche l’ennesimo campionato ai danni del Torino di Pulici e Graziani, superato all’ultima giornata per 51 punti a 50 – la Fiorentina, terza, seguì alla distanza siderale di 16 (!) punti. Quel successo si iscrisse negli annali come il solo titolo internazionale mai conseguito da una squadra interamente composta di giocatori italiani, un primato con ogni probabilità destinato a rimanere ineguagliato. Dopo l’amarissima sconfitta nella finale di Coppa dei Campioni del 1983 contro l’Amburgo, gli uomini di Giovanni Trapattoni si rifecero l’anno successivo con il successo in Coppa delle Coppe: il Porto fu superato a Basilea per 2-1, grazie alle reti di Beniamino Vignola e Zbigniew Boniek.
Il nuovo alloro consentì di competere per la Supercoppa europea, avversario il Liverpool di Ian Rush e John Wark, che peraltro sembrava in altre faccende affaccendato e non fu in grado di trovare due date per il tradizionale doppio confronto di andata e ritorno. Le due squadre si accordarono per una sfida secca, al Comunale di Torino, che andò in scena il 16 gennaio 1985, durante l’inverno più freddo del secolo. Sul terreno semi-congelato e con un pallone di color arancione, i Reds si arresero cortesemente a due stoccate di Zibi Boniek. In maggio, venne anche la Coppa dei Campioni, sempre a discapito degli inglesi del Merseyside, ma nella funesta serata dell’Heysel. Michel Platini fu aspramente criticato per l’esultanza dopo il gol decisivo su calcio di rigore, magnanimamente concesso dall’arbitro Daina per evidenti motivi di “ordine pubblico”, e per aver poi guidato i compagni nell’usuale, ma inappropriato, giro di campo celebrativo. Scioccato dalla tragedia, Boniek rifiutò il premio-partita e Antonio Cabrini giustamente sottolineò che la coppa era coperta di morte e non di gloria.
In estate, la dirigenza bianconera condusse un mercato di rifondazione. Se ne andarono veterani carichi di titoli come Gentile, Tardelli, Rossi e Boniek, e arrivarono Aldo Serena, Massimo Mauro e Lionello Manfredonia. La squadra pareva comunque attrezzata per dare l’assalto alla Coppa Intercontinentale, l’ultimo trofeo ancora mancante nella bacheca juventina. La preparazione estiva fu calibrata per massimizzare il rendimento in autunno, quando era fissata la finale di Tokio. Caricata dalla voglia di riscattare la triste vittoria di Bruxelles, la Juventus comunciò la stagione al galoppo, vincendo le prime otto partite di campionato e presentandosi al massimo della forma al rendez-vous contro gli argentini dell’8 dicembre 1985. Certi della loro forza e galvanizzati dal trionfale andamento in campionato, i bianconeri partirono fiduciosi per la capitale giapponese e reagirono con disinvoltura anche al pessimo stato del terreno di gioco, dove la palla sembrava rimbalzare a destra e sinistra come un coniglio in fuga da un predatore.
Gli argentini si rivelarono un osso più duro del previsto. Borghi disputò la partita della vita, finendo fra le grazie di Silvio Berlusconi, che avrebbe cercato di assicurarselo qualche anno dopo, dovendo però cedere alla fermezza di Arrighi Sacchi che gli preferì Frank Rijkaard. Il primo tempo si concluse a reti bianche, ma i sudamericani segnarono subito a inizio ripresa con Ereros. Un rigore concesso per un goffo intervento ai danni di Serena consentì il pareggio a Platini, che pochi minuti dopo si esibì in una delle sue prodezze più ricordate: il francese ricevette un passaggio di testa di Bonini, stoppò la palla di petto e senza lasciarla cadere eseguì un dribbling volante ai danni dei difensori, spedendola al volo di sinistro sul palo più lontano. La gioia dei bianconeri e l’ammirata meraviglia dell’intero stadio furono però silenziati dal fiscalissimo arbitro Volker Roth, che annullò la segnatura per un ininfluente fuorigioco di posizione di Serena. In segno di protesta, Platini si lasciò cadere a terra e assunse una postura à la Paolina Borghese: l’ironia, il garbo e l’eleganza della mossa sono rimasti come una delle immagini più evocative della classe del transalpino, che cancellò così nella mente degli appassionati di tutto il mondo il suo inadeguato comportamento dell’Heysel. Il giorno seguente la Gazzetta dello sport avrebbe scritto che l’annullamento del gol fu “un crimine contro il calcio”. Per niente impietositi, gli argentini tornarono prontamente in vantaggio con un gol di Castro, abile a capitalizzare un’illuminante apertura dell’ispiratissimo Borghi, il quale apprestò le condizioni per un pezzo di altissima scuola da parte di Michael Laudrup.
Il danese aveva solo 21 anni ed era rientrato in estate dal prestito alla Lazio, dove la Juventus l’aveva parcheggiato due anni prima in attesa che il suo talento si manifestasse appieno. Nelle intenzioni della dirigenza, il biondo attaccante avrebbe dovuto rimpiazzare le Roi Michel quale faro della squadra. Per qualità e classe, si trattava di un proposito che aveva fondate ragioni per realizzarsi: Laudrup possedeva virtù tecniche sublimi, calciava quasi indifferentemente con i due piedi, era dotato di una progressione irresistibile e di un’intelligenza tattica assai pronunciata, che prometteva di svilupparsi in una straordinaria capacità di “vedere” il gioco. A Tokio, queste caratteristiche emersero con rara vividezza in occasione della rete del 2-2, giunta a soli sette minuti dalla fine dei tempi regolamentari. Schiacciati nella propria area dalla pressione bianconera, gli argentini rilanciarono l’azione nel tentativo di mettere in offside gli avanti avversari. La palla fu però riconquistata da Laudrup, che la diresse verso Platini proponendosi per la chiusura della triangolazione; ormai di fronte al portiere, la giovane punta lo aggirò e resistette al tentativo di fallo, allargandosi però fino a perdere quasi completamente la visuale della porta. Ormai fuori equilibrio e con un angolo di tiro strettissimo, il danese riuscì comunque a indirizzare la palla verso la rete sguarnita.
L’equilibrio non fu rotto durante i supplementari e furono necessari i calci di rigore. Stefano Tacconi neutralizzò i tiri di Batista e Pavoni, ma il precedentemente eroico Laudrup si fece ipnotizzare dall’estremo Vidallé, il che lasciò il palcoscenico al divino Michel, il cui chirurgico rigore assicurò alla Vecchia Signora il Grand Slam dei titoli ufficiali a livello di club.
Laudrup con la maglia del Barcellona, con cui vinse la Liga per quattro anni consecutivi e la Coppa dei Campioni nel 1992
Quella squadra avrebbe ancora vinto lo scudetto la primavera successiva, resistendo alla furiosa rimonta della Roma guidata dall’ex Boniek, migrato nel ruolo di mediano di spinta. Il trionfo di Tokio fu però il canto del cigno della Juventus trapattoniana e l’ultima gemma della gloriosa carriera di Platini, che dopo quella partita aggiunse solo altri tre gol al suo ricco score personale. Quanto a Laudrup, non avrebbe purtroppo raccolto l’eredità del francese. Due anni dopo, con una mossa peraltro malconsigliata, Boniperti gli avrebbe addirittura preferito l’esangue Oleksandr Zavarov. Il principino danese approdò al Barcellona, da dove sarebbe poi transitato al Real Madrid, accumulando vittorie su vittorie e numerosi attestati di stima da parte dei sempre illustri compagni di squadra. Tuttavia, non dissipò mai del tutto l’impressione di essere un calciatore fantastico, però incapace di esprimere al meglio e con continuità le sue immense potenzialità.