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Rocky contro Ivan Drago, un'anticipazione di futuro

Il 27 novembre 1985, uscì negli Stati Uniti il quarto film della saga, che preannunciò il crollo dell'Unione Sovietica

Questo che si chiude è stato l’anno delle celebrazioni di Ritorno al futuro: per i trent’anni dall’uscita del primo episodio della saga e perché il 21 ottobre 2015 fu la data scelta dai protagonisti per il viaggio nel tempo nel secondo capitolo della serie. È poco probabile che il trentesimo anniversario dell’uscita di Rocky IV, che cade il 27 novembre, generi la stessa eccitazione fra i cinefili e una mobilitazione paragonabile dei mass media. A differenza dell’opera di Robert Zemeckis, che mise d’accordo critici e pubblico, risultando il film più visto della stagione e venendo poi inserito fra le pellicole da conservare alla biblioteca del Congresso degli Stati Uniti, il quarto lungometraggio sul pugile di origine italiana fu unanimemente stroncato dalla critica, facendo incetta di “premi” nell’annuale cerimonia degli Oscar al contrario, i cosiddetti Razzie Awards. Sylvester Stallone se ne aggiudicò diversi anche con il coevo e ugualmente sbeffeggiato Rambo II, ma si rifece al botteghino, salendo fino al secondo e al terzo posto nella classifica degli incassi stagionali, cumulando insieme più introiti di Ritorno al futuro. Cosa indusse dunque così tanti spettatori ad assieparsi idealmente ai bordi del ring sul quale Rocky Balboa raccoglieva il guanto di sfida di Ivan Drago, il robotico e gelido prodotto della spietata scuola pugilistica sovietica?

Non l’intreccio, vien da dire subito, banale e prevedibile. Non la caratterizzazione dei personaggi, rozzi al limite del grottesco, stereotipati oltre la soglia della caricatura, obbedienti a una sceneggiatura scarna e approssimativa, tenuta insieme da dialoghi ridicoli e dall’insistito ricorso a vieti luoghi comuni. Neanche l’impresa sportiva che Rocky porta a compimento, a guardar bene, fu così degna di onorare il libro dei record del pugile di Philadelphia.

Scosso dalla morte dell’amico Apollo Creed, uscito dal ritiro e ucciso sul quadrato dall’ipermuscolato Drago in un match che avrebbe dovuto essere una semi-finzione, Rocky decide di tornare a combattere. Contro il parere della federazione pugilistica, che gli vieta di affrontare un dilettante, il campione firma il contratto per un incontro senza borsa da tenersi a Mosca il giorno di Natale. Prevedibilmente, come un novello Davide, rovescerà il pronostico e abbatterà il malvagio Golia alla quindicesima ripresa. Ma fu vera gloria? A prendere per buoni gli stessi dati forniti dalla trama, Ivan Drago aveva un impressionante record di cento knockout su 101 incontri ed era campione olimpico nella categoria dei massimi. Tuttavia, come russo, aveva dovuto sottostare al boicottaggio dei Giochi di Los Angeles del 1984 e quindi il suo oro olimpico doveva risalire all’edizione moscovita del 1980, però non poco sminuita dalla defezione statunitense e di altri 64 paesi. Inoltre, nella sua carriera Drago non era mai andato oltre le tre riprese (la durata degli incontri nella boxe dilettante) e il massacro di Creed era di fatto avvenuto ai danni di un 42enne presuntuoso, arrugginito da cinque anni di inattività. Cosa si poteva allora scorgere dietro il battage pubblicitario e la strombazzata retorica da guerra fredda? Niente di più dell’indiscusso campione dei pesi massimi opposto a un uomo al primo incontro da professionista, la cui medaglia olimpica era stata conquistata in circostanze quanto mai agevoli.

Brigitte Nielsen e George Pataki interpretavano la fidanzata e il manager di Ivan Drago

Ma non si trattava del mero confronto fra due boxeur. Era piuttosto la metaforica resa dei conti fra due sistemi in lotta da quarant’anni. Era, come cantavano i Survivor nell’enfatica Burning heart inclusa nella colonna sonora del film, «lo scontro primitivo dopo anni di frustrazioni»; era «la libertà contro le catene» e «l’Est contro l’Ovest». Dipinti come figure detestabili e prone a un volere impersonale e soverchiante, erano gli stessi componenti della delegazione russa ad alimentare la collisione epocale: il manager di Drago annuncia infatti l’imminente sconfitta di Balboa come il segno inequivocabile della debolezza della società americana. Proprio l’immagine di un paese debole e rassegnato, privo di fibra morale e disciplina militare, era quella che Ronald Reagan aveva additato e promesso di ribaltare durante la campagna presidenziale del 1980, che fu segnata come poche volte in passato dai temi di politica estera. L’ex governatore della California non perse occasione per stigmatizzare la condotta troppo arrendevole dei suoi predecessori, per criticare gli accordi sulla limitazione delle armi strategiche cui gli Stati Uniti si erano piegati per il senso di colpa della guerra del Vietnam e per denunciare come un pericolo mortale la presunta superiorità militare raggiunta dai sovietici. Con ineguagliate capacità di seduzione e con una retorica aggressiva e allarmistica, Reagan riuscì a restaurare l’orgoglio perduto e l’eroso prestigio della superpotenza americana, persuadendo l’opinione pubblica della necessità di sferrare il colpo finale al perfido “Impero del male”.

Sylvester Stallone, con la fidanzata Brigitte Nielsen, a un ricevimento della Casa Bianca con Nancy e Ronald Reagan

Sylvester Stallone schierò nella battaglia annunciata dall’ex attore divenuto presidente tutto il potere immaginifico dell’industria culturale hollywodiana e si pose alla testa della definitiva crociata anticomunista. Contro Ivan Drago, iperbolica rappresentazione della deumanizzante ideologia marxista, docile strumento nelle mani dello stato totalitario e atleta-mutante costruito in laboratorio, Rocky incarna il prototipico eroe americano, creativo, determinato e idealista. Quando sale sul ring, accolto dalle urla di scherno dell’ostile folla moscovita, di fronte ai membri del Politburo e al nuovo leader con le sembianze di Michail Gorbačëv (non ancora amabilmente soprannominato Gorby), porta con sé le speranze e le paure dell’America intera. Nel cuore del territorio nemico, sopporta un’inaudita tempesta di colpi e, come sempre nelle vicende dello “stallone italiano”, nei più remoti recessi della sua anima indomita trova la forza e il coraggio per una clamorosa rimonta. Con un taglio profondo all’occhio sinistro e sconcertato dalle doti di resistenza di Balboa, Drago è scalfito nelle sue certezze. L’incitamento dei secondi non basta a scuoterlo ed ecco allora la strigliata minacciosa dell’infido manager, sorta di commissario politico a bordo ring, che lo richiama ai suoi doveri verso la patria. Drago lo strattona e, per la prima volta, esce dal ruolo di fantoccio e rivendica di combattere solo per se stesso. È il mutamento radicale: come liberata da un incantesimo malefico, la folla inizia a parteggiare per lo sfavorito ed esplode in un autentico tripudio all’atterramento di Drago.

Rocky sferra il colpo del KO

Sta qui il valore premonitorio e la principale attrattiva per gli spettatori degli anni ‘80 del pessimo film di Stallone. Mentre il giustamente osannato Ritorno al futuro ha clamorosamente fallito la previsione tecnologica (osservate con gli occhi di oggi, le diavolerie del “2015” immaginate da Zemeckis nel 1989 appaiono nient’altro che futuro arcaico), in Rocky IV c’è invece il corretto preannuncio del crollo dell’Unione Sovietica e della completa adesione (o sottomissione?) della nuova Russia ai dettami politici, economici e culturali dell’Occidente, ben simboleggiata dalla conversione dei fan e dal pacifico discorso finale del pugile Italo-americano. Con il volto tumefatto e avvolto nella bandiera americana, Rocky tende un ramoscello d’ulivo alla nomenklatura che lo osserva dal palco d’onore e al popolo sovietico, ma le sue parole di manierata fratellanza risuonano nell’arena come la paternalistica accettazione della resa incondizionata del nemico sconfitto.

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