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Thrilla in Manila

Il 1° ottobre 1975, Muhammad Ali resistette all'assalto di Joe Frazier, in uno dei combattimenti più violenti della storia della boxe

Fra i meriti non comuni di Muhammad Ali vi è anche quello di aver sbanalizzato il linguaggio della boxe. Prima del suo avvento, si erano succeduti innumerevoli “match del secolo”: dalla sfida del 1915 fra Jack Johnson, il primo afro-americano campione dei massimi, e Jim Jeffries, tornato dal ritiro a furor di popolo per dare una lezione al nero, senza però riuscirci, al combattimento fra il leggendario Jack Dempsey e l’eroe di guerra francese Georges Carpentier, che nel 1921 attirò nel New Jersey 90.000 spettatori, al confronto fra il bombardiere Joe Louis e il tedesco Max Schmeling, che nel 1938 anticipò l’imminente resa dei conti fra le democrazie e le dittature nazifasciste. Anche ad Ali toccò il suo, quello disputato dopo la squalifica subita per il rifiuto di combattere in Vietnam e perso contro il nuovo campione Joseph Smokin’ Joe Frazier: fu l’incontro inaugurale della più nota trilogia della storia del pugilato, che si concluse il 1° ottobre di quarant’anni fa con l’epico “Thrilla in Manila”, così battezzato da un’ossessiva filastrocca con cui Ali dileggiava Frazier, paragonandolo a un gorilla.

Fu il promoter Don King a organizzare il match di Manila

Negli anni ‘60 e ‘70 del Novecento, soprattutto a causa di Ali, il pugilato contava e importava a un sacco di gente. Gli incontri erano ben di più di una semplice contesa atletica e il vulcanico boxeur di Louisville era stato il primo a capirlo. Sfruttando il suo istrionismo innato, una parlantina incontenibile e uno stile pugilistico inedito e accattivante, si era fatto largo nell’equivoco e razzista establishment pugilistico, imponendo all’America benpensante il punto di vista dirompente della minoranza nera in lotta per i diritti civili. Mentre arringava i paludati media sportivi o prorompeva in esuberanze verbali o fisiche, promuoveva al contempo la propria causa di atleta e rivoluzionarie idee politiche e sociali, che nessun pugile, soprattutto se nero, aveva mai osato esprimere. Dopo che la Corte Suprema ebbe rovesciato la condanna che gli era costata oltre tre anni di assenza dal ring, Ali tornò nel 1971 e al Madison Square Garden di New York conobbe, come detto, la prima sconfitta della carriera, con annesso ko. Tuttavia, non durò a lungo il regno di Frazier, che si arrese all’imponente George Foreman e nel gennaio 1974 subì la rivincita di Ali in una specie di semifinale per conquistare il diritto a sfidare il neo-sovrano dei massimi. Fu allora che il mito di Ali divenne troppo grande (e costoso) perfino per l’America e il celebre “rumble in the jungle” andò in scena nel cuore dell’Africa, pagato salatamente da Mobutu Sese Seko, il dittatore dello Zaire. Come già raccontato, fu un trionfo per Ali.

Si apprestarono perciò le condizioni per il terzo e decisivo incontro fra Ali e Frazier, che traversarono il Pacifico alla volta di Manila. La borsa era assicurata dalle Filippine del despota Ferdinando Marcos, ansioso di sviare l’attenzione dai tumulti che scuotevano il paese, cui aveva imposto la legge marziale tre anni prima. Ma chi era Smokin’ Joe, cui Ali concedeva un’altra chance per la corona mondiale?

Gli assalti di Frazier erano così incessanti che i guantoni parevano fumare, da cui il celebre soprannome

Anzitutto, era diverso da lui. Sul quadrato, niente era più distante di Frazier dalla sublime eleganza di Ali. Era un toro sbuffante, tarchiato e sgraziato, in possesso di una volontà incrollabile e di una titanica resistenza alla fatica e al dolore. Più basso degli avversari, per sferrare il suo micidiale gancio sinistro, accorciava ostinatamente la distanza ondeggiando e offrendo il volto a innumerevoli punizioni. Ma era l’uomo a incarnare il perfetto alter ego di Ali. Frazier rappresentava solo se stesso, non conosceva i musulmani neri, per la gloria dei quali The Greatest combatteva, e non era un’icona venerata dall’America liberal e pacifista. Era stato il successo nello sport, che includeva l’oro alle Olimpiadi di Tokio del 1964, a proiettarlo fuori dal Sud segregazionista, dove i genitori continuavano a lavorare nelle piantagioni di cotone. Per questo le insistenti offese di Ali, che a mezzo fra disprezzo e recita lo definiva uno “zio Tom” e un “ignorante”, lo ferivano più dei jab ficcanti. Che fosse reale o artefatto, il risentimento fra i due era esploso davanti alle telecamere della ABC, durante una trasmissione che intendeva promuovere il loro secondo incontro. In seguito a un escalation di insulti, vennero alle mani. Ai presenti, incerti se preoccuparsi o considerare la zuffa una trovata pubblicitaria, parve chiaro che Ali stava recitando; Smokin’ Joe era invece tremendamente serio. Infuriato per le ingiurie di Ali, cui pure aveva prestato aiuto finanziario negli anni del bando, Frazier dichiarò che nella capitale asiatica non si sarebbe accontentato di vincere: voleva strappare il cuore dal petto del rivale.

Per le solite esigenze televisive dei network statunitensi, l’incontro iniziò alle 10 del mattino. L’Araneta Coliseum, con il suo tetto metallico, ribolliva di umori e urla eccitate. Senz’aria condizionata e incendiata dai riflettori delle telecamere, la temperatura superava abbondantemente i 40 °C. I contendenti non si risparmiarono, aizzati dalla genuina animosità che li divideva. Ali prese un iniziale vantaggio, che Frazier annullò verso la settima ripresa. Da lì in avanti fu uno scambio bestiale di fendenti, di una tale rozza intensità che molti lo considerano il combattimento più brutale della storia dei pesi massimi. Spronato dal coach Angelo Dundee, Ali scovò energie che non sapeva di avere e tempestò l’ansimante Smokin’ Joe di pugni terribili. A un certo punto, spedì fuori dal ring il paradenti di Frazier, che barcollò sanguinante e quasi accecato. Al suono del quattordicesimo gong, crollarono entrambi sugli sgabelli. Eddie Futch, l’allenatore dello sfidante, osservò il volto tumefatto del suo uomo, gli occhi ormai chiusi dal gonfiore. Gli posò una mano sulle possenti spalle e resistette alla sua debole protesta: «Resta seduto, figliolo», gli disse. «È finita, ma nessuno dimenticherà quello che hai fatto oggi». L’angolo di Ali esultò, ma il campione a stento riuscì ad alzarsi in piedi. Sollevato per aver evitato l’ultimo assalto, prima ancora che felice per la vittoria, collassò sul tappeto. «Quello che avete visto è la cosa più vicina alla morte che ho mai sperimentato», sentenziò Ali in sala stampa, con appena un filo di voce.

Ormai anziani, Ali e Frazier hanno posato insieme nel trentesimo anniversario dell'incontro

I due pugili sembrarono infine riconoscere la portata di quello che avevano compiuto e reciprocamente si rivolsero parole di ammirazione. Fu di fatto la fine della carriera per Frazier, che sarebbe morto di cancro nel 2011. Ali tenne il titolo ancora per tre anni, lo perse e lo riconquistò per la terza volta con Leon Spinks nel 1978. Incapace di sottrarsi al suo stesso mito, subì una pesante punizione dal nuovo campione Larry Holmes e nel 1981, quasi quarantenne, incrociò i guantoni a Nassau contro il giovane Trevor Berbick. Con un ultimo colpo di teatro, chiamò il match “drama in Bahama” e fu una sciagura soprattutto per la sua salute: in capo a poco tempo, gli fu diagnosticato il morbo di Parkinson.

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