GoBlog - Paolo Bruschi
Al via i Mondiali di rugby in Inghilterra

È questione ampiamente discussa se lo sport debba essere idealizzato come un mezzo per guarire ferite, ricucire strappi e lacerazioni, gettare ponti fra culture diverse, o se invece sia da considerare un’altra via per alimentare il fervore nazionalistico che è alla base di molti conflitti fra gli esseri umani. Il dibattito si riaccende ogni volta che il calendario internazionale porta alla ribalta eventi di alto profilo: gli uni rammentano che il pugno guantato di nero di Tommie Smith alle Olimpiadi messicane del 1968 fornì un impulso formidabile alla lotta per i diritti civili degli afro-americani, gli altri ricordano il massacro degli atleti israeliani compiuto dai terroristi di Settembre Nero ai Giochi di Monaco di quattro anni dopo.
Mentre si aprono in Inghilterra gli ottavi Campionati del mondo di rugby, la memoria corre all’edizione del 1995, quando Nelson Mandela, neo-eletto presidente del Sudafrica appena uscito dall’apartheid, seppe unire un intero popolo dietro gli Springboks (così è chiamata la nazionale, dal nome dell’antilope diffusa nel sud del continente nero) e scongiurare una disastrosa guerra civile, che molti osservatori giudicavano inevitabile. Mandela sapeva che il “quindici” in maglia verde era il simbolo più esecrato del regime segregazionista che l’aveva rinchiuso nel penitenziario di Robben Island per 27 anni, ma sapeva anche che l’uscita dei neri dal lungo stato di minorità politica e sociale esponeva il paese al rischio di cruente sollevazioni: riuniti sotto torve insegne neo-naziste, gli oltranzisti bianchi minacciavano infatti il ricorso alla lotta armata. Era chiaro che la democrazia non sarebbe sopravvissuta senza pace e che non ci sarebbe stata libertà senza riconciliazione. Per raggiungere entrambi gli obiettivi, Mandela impegnò tutte le sue forze e vide un’opportunità da sfruttare nei mondiali di rugby, cui il Sudafrica era stato ammesso per la prima volta dopo la fine dell'embargo sportivo e che avrebbe avuto l’onore di ospitare. Per precise ragioni storiche, la palla ovale, importata dal reverendo inglese George Ogilvie nel XIX secolo, era però lo sport della minoranza bianca, degli afrikaner che discendevano dai coloni europei e che erano i responsabili della segregazione.
Madiba non desistette e incontrò François Pienaar, il biondo capitano della squadra, per guadagnarlo alla sua causa. Furono organizzati momenti di “avvicinamento” fra la nazionale e la popolazione nera, come gli allenamenti aperti al pubblico. I giocatori della rosa furono condotti a visitare la prigione di Robben Island e impararono a memoria un vecchio canto di resistenza in lingua xhosa, che era diventato il nuovo inno nazionale. Mandela non mancò di fare pressioni sulla sua parte. Con indosso il capellino verde degli Springboks, si presentò a un raduno del suo partito, l’African National Congress (ANC), e fra lo scandalo generale spese tutto il suo ascendente per chiedere alla folla di tifare per la propria nazionale, nella quale l’unico coloured era Chester Williams.
Come andò a finire è arcinoto, soprattutto dopo Invictus, il bel film che Clint Eastwood ha dedicato alla storia, con Morgan Freeman e Matt Damon nei ruoli dei protagonisti. Dopo i gironi eliminatori, il Sud Africa estromise facilmente le Samoa Occidentali e superò in semifinale la Francia, al termine di una gara tiratissima, disputata su un terreno ridotto alle sembianze di una risaia. In finale, gli Springboks erano attesi dai favoritissimi neozelandesi, che schieravano il mastodontico e velocissimo Jonah Lomu, autore di una prestazione leggendaria contro gli Inglesi, quando aveva segnato addirittura quattro mete e strabiliato per la potenza incontenibile. Per incoraggiare le “antilopi”, prima della gara, Mandela scese negli spogliatoi con indosso la maglia di Pienaar, che fu poi immortalato durante l’esecuzione degli inni con le mascelle strettamente serrate per non cedere all’emozione. Lo stadio sostenne compattamente i padroni di casa e in un’atmosfera di commovente emotività, gli Springboks imbrigliarono il gigantesco Lomu e vinsero di misura per 15-12.
Tutto il paese si riversò in strada per festeggiare il successo sportivo e suggellare l’atto di nascita della “nazione arcobaleno”, come l’arcivesco Desmond Tutu, Nobel per la pace nel 1984, aveva definito il miscuglio di razze del Sudafrica. Proprio l’alto prelato, anni dopo, avrebbe riconosciuto il peso avuto prima dal boicottaggio sportivo inflitto agli atleti sudafricani e poi dalla stretta relazione fra politica e sport nell’edificazione di un paese finalmente pacificato. Un processo tuttavia ancora lungo e tuttora in corso, che necessita di costante cura e attenta vigilanza, per scongiurare i sempre incombenti rischi di ritorni all’indietro.
Proprio in preparazione dell’attuale Coppa del mondo, aspre polemiche hanno interessato i criteri di selezione degli Springboks. Il Congresso dei Sindacati Sudafricani (CoSATU), alleato di governo dell’ANC, è giunto fino al punto di chiedere le dimissioni del coach Heyneke Meyer, sostenendo che l’insufficiente integrazione razziale dello sport nazionale è una dolorosa metafora della disillusione che serpeggia fra la popolazione nera venti anni dopo gli sforzi di Mandela e Pienaar. Secondo gli scettici, l’establishment rugbistico è ancora impregnato di mentalità e pratiche che escludono i neri e premiano i bianchi (che sono meno del 10% della popolazione) oltre i loro effettivi meriti tecnico-atletici. Per ovvie ragioni di natura meritocratica, l’ipotizzata introduzione di un sistema di quote non convince lo stesso governo, benché l’ex presidente Thabo Mbeki abbia dichiarato che l’incremento della rappresentanza dei giocatori di colore deve essere perseguito anche a costo di ridurre la competitività della nazionale. La Federazione di rugby pare aver scelto un compromesso, varando un piano quinquennale che per i mondiali del 2019 ha l’obiettivo di inserire nella rosa degli Springboks almeno il 50% di giocatori non bianchi. Come si è premurato di precisare il presidente federale Jurie Roux, si tratta di un mero traguardo, che non implica sanzioni nel caso in cui non venga raggiunto, ma che intende fissare obiettivi strutturati e programmi di attuazione.
La diramazione delle convocazioni ufficiali da parte di Meyer ha rasserenato gli animi. Con otto giocatori neri o di colore sui 31 in totale, il tecnico ha incassato anche l’apprezzamento del CoSATU, il cui portavoce ha riconosciuto che la selezione è la più rappresentativa mai assemblata. È da ritenere che, se il 31 ottobre prossimo, nella cornice monumentale dello stadio londinese di Twickenham, gli Springboks alzeranno al cielo la loro terza Coppa del mondo, un altro passo sarà compiuto verso la parità razziale dello sport sudafricano.
Paolo Bruschi