Gunnar Nordahl, il primo esponente della legione straniera

Ci ha recentemente informato il CIES, l’osservatorio sul calcio con base in Svizzera, che nei maggiori campionati europei la percentuale di giocatori stranieri è in crescita costante. La Serie A è quella che ha conosciuto l’incremento più sensibile, passando dal 42,4% di stranieri nel 2009 al 54,8% della stagione 2014-15. Nel processo, si è così avvicinata alla Premier League, che con il 59,3% è il campionato più cosmopolita, distanziando abbondantemente la Liga (38,9% di stranieri) e la Bundesliga (43,5%): le difficoltà di Antonio Conte, responsabile tecnico degli azzurri, nell’assemblare una selezione competitiva si spiegano anche con il ridotto bacino di giocatori da cui può attingere.
Prima della sentenza Bosman, che nel 1995 ha liberalizzato il mercato abbattendo ogni barriera alla circolazione degli atleti europei e che è all’origine dell’accresciuta internazionalizzazione di cui si è detto sopra, l’afflusso di stranieri nei campionati italiani ha conosciuto alterne fasi di apertura e chiusura. La prima invasione di pedatori esteri avvenne negli anni successivi alla fine della seconda Guerra mondiale. Il capostipite dei grandi nomi che da lì in avanti avrebbero periodicamente galvanizzato le tifoserie del Belpaese, sedotte dal fascino dell’esotismo e dalla promessa di mirabolanti imprese, fu lo svedese Gunnar Nordahl, un campione quasi dimenticato, di cui ricorre oggi il ventesimo anniversario della morte. Il possente centravanti scandinavo guidò l’attacco del Milan per otto stagioni e chiuse la carriera alla Roma nel 1958, totalizzando ben 225 reti in 291 gare, che ne fanno il terzo marcatore assoluto della massima serie, con la media-record ancora ineguagliata di 0,77 gol partita.
In verità, calciatori d’oltreconfine venivano regolarmente importati dai club italiani già prima della guerra, ma nella maggior parte dei casi si trattava di giocatori provenienti dal Sudamerica, le cui ascendenze italiane, anche in conseguenza di una precisa direttiva del regime mussoliniano, consentivano che venissero schierati come oriundi in nazionale: l’Italia se ne servì largamente per rinforzare il proprio organico negli anni dei titoli mondiali del 1934 e del 1938. Dopo il 1945, l’ossatura della rappresentativa azzurra era costituita dai titolari del Grande Torino, che vinse cinque scudetti consecutivi fino al 1949, quando l’intera squadra perì nel disastro aereo di Superga, privando d’improvviso il movimento calcistico italiano dei suoi migliori esponenti. Sull’onda emotiva della tragedia, il 1° luglio 1949, la FIGC decise l’apertura delle frontiere e fu stabilito che ogni club avrebbe potuto tesserare fino a tre giocatori stranieri. Come si sostiene ancora oggi, la decisione intendeva anche calmierare i prezzi dei giocatori italiani e i presidenti si rivolsero in massa ai campionati del nord Europa. Per due ordini di motivi.
Le competizioni internazionali erano interrotte dal 1938, dato che, a causa del conflitto mondiale, erano state annullate le Rimet del 1942 e del 1946 e i Giochi del 1940 e del 1944. I confronti fra nazionali ripresero al torneo olimpico dell’edizione londinese del 1948, che fu dominato dai paesi scandinavi: la Svezia vinse l’oro in finale sulla Jugoslavia e la Danimarca si assicurò il bronzo contro il Regno Unito. Gli assi svedesi e danesi divennero particolarmente appetibili anche perché appartenevano a federazioni che sposavano un rigido dilettantismo, che impediva loro la stipula di lucrosi contratti professionistici. Almeno in prima battuta, dunque, quei campioni potevano essere ingaggiati con somme d’importo contenuto.
Alle Olimpiadi londinesi, Nordahl si era messo in luce segnando una rete nella finalissima e vincendo la classifica marcatori con sette gol, a pari merito con il danese Karl Åge Præst, che sarebbe approdato alla Juventus nello stesso torno di tempo. Nato a Hörnefors, il 19 ottobre 1921, Nordahl aveva iniziato a folgorare le reti avversarie da ragazzo, mentre lavorava come tornitore, e solo a 22 anni decise di dedicarsi a tempo pieno al pallone: il Norrköping lo acquistò dal Degerfors e, per convincerlo, oltre alla maglia n. 9, gli offrì un lavoro come pompiere (da cui il soprannome che lo accompagnò nei suoi anni nella Penisola) e una pensione a vita per una serena e sicura vecchiaia. Accettando la proposta del Milan e sbarcando in Italia il 22 gennaio 1949, Nordahl mise fine in un sol colpo alle sue preoccupazioni economiche e al contempo diventò il primo calciatore svedese a espatriare. Il prezzo da pagare fu la prematura esclusione dalla nazionale per la politica dilettantistica federale, cui Stoccolma non avrebbe rinunciato neanche in vista della Coppa del mondo del 1950: benché avesse già segnato 43 gol in appena 33 gare, il che ne fanno anche a distanza di quasi settant’anni il secondo cannoniere della storia della nazionale svedese, Nordahl non partecipò ai Mondiali brasiliani - dove pure la Svezia chiuse con un onorevolissimo terzo posto - e divenne uno dei più grandi giocatori di sempre a non disputare alcuna Coppa Rimet.
All’esordio in Italia, contro la Pro Patria, siglò una doppietta. Altri 13 gol li segnò nelle restanti 15 partite della seconda parte del campionato. Impressionati da tanta forza, i dirigenti rossoneri accolsero la raccomandazione di Nordahl di affiancargli due amici che erano rimasti a giocare in Svezia e acquistarono così Gunnar Gren e Nils Liedholm. Si formò in tal modo uno dei più celebri terzetti del calcio nostrano, eternato in “Gre-No-Li” da un giornalista in difficoltà con i nomi stranieri. Innescato dalle geometrie impeccabili di Liedholm e sostenuto sulla trequarti da Gren, nella stagione 1950-51, Nordahl condusse il Milan al primo scudetto dell’era moderna, dopo ben 44 anni di digiuno. Vinse un secondo campionato quattro anni dopo e, con strabilianti primati realizzativi, conquistò la corona di primo goleador per ben cinque volte.
Nel frattempo, l’arrivo dei danesi John Hansen e Præst alla Juventus, di István Nyers e dell’altro svedese Lennart Skoglund all’Inter, aveva trasformato la serie A nel primo torneo per club realmente internazionale, che rivaleggiava a suon di milioni con la Liga spagnola nell’offrire ingaggi stratosferici alle stelle di tutto il mondo.
La nazionale azzurra, invece, intraprese una persistente china declinante, che cominciò proprio alla Rimet brasiliana, quando da bi-campione in carica fu estromessa proprio dagli svedesi, pur indeboliti dall’esclusione dei mercenari approdati nello Stivale - presto si aggiunsero i nuovi fuoriclasse messisi in luce in Sudamerica, quali Hasse Jeppson che finì all’Atalanta e poi al Napoli. La carestia italiana terminò solo dopo la vergognosa disfatta coreana del 1966, dopo la quale fu deciso di mettere al bando gli acquisti di calciatori stranieri.