Anche quest’anno dal 9 agosto al 6 settembre, per la quinta volta, nella meravigliosa Limonaia del Palagio Fiorentino di Stia, con la partecipazione di 30 artisti ed oltre 120 opere, torna la Biennale di Pittura dedicata ai “Falsi d’Autore”. Ancora una volta Ledo Fabbri è riuscito nel miracolo di confermare una manifestazione che, in modo alto e prestigioso, affiancherà la XXI Biennale Europea di Arte Fabbrile.
Pensare una cosa e realizzarla non è semplice, riuscire a farlo per cinque volte, creando quasi una tradizione ed inserirci in ogni occasione elementi di forte innovazione, certifica un amore assoluto verso quello che si sta facendo e verso la propria città, alla quale la Mostra è dedicata. E le novità di questa edizione sono davvero importanti: intanto la manifestazione si internazionalizza grazie alla partecipazione di artisti svizzeri, russi ed inglesi, poi ci saranno Jacopo Fo ed i suoi disegni e, ultimo ma non ultimo, suo padre Dario Fo che presenterà alcuni dei suoi splendidi quadri. Se rientra nell’alveo di un amore particolare, quello per l’Arte, riprodurre le opere dei Grandi Maestri della nostra storia, è anche amore e rispetto verso i più sfortunati tra noi, devolvere ad una Fondazione che assiste la disabilità, quanto ricavato dalla vendita dei disegni di Jacopo Fo.
E amore e rispetto verso il lavoro associare un’attività intellettuale, ma che si poggia su specifiche conoscenze tecniche come la produzione artistica, alle opere della Biennale Europea di Arte Fabbrile fatte di sudore e fatica ma a loro volta fortemente connesse ad un sapere che viene dalle origini dell’uomo. Mi piace pensare che sia per questo che Dario Fo, il cantore di una storia universale che trae costantemente linfa da un passato mai vissuto come inerte immobilità ma al contrario ricco di fermenti del futuro, abbia deciso di non far mancare la propria presenza.
A lui, a suo figlio, agli artisti fonte prima della mostra, al Sindaco ed alla Giunta di Stia che da sempre sono vicini alla manifestazione, agli sponsor decisivi per la realizzazione dell’evento, un grazie di cuore da parte di tutti noi fruitori di una vera e propria festa collettiva. A Ledo, ed alla sua famiglia che da sempre lo sostiene in questa avventura, non posso dire grazie ma ‘arrivederci al prossimo caffè’ che ci sorbiremo in amicizia, prendendosi reciprocamente un po’ in giro mentre ci raccontiamo sogni. Non chiamateli falsi Di Anita Valentini, Critico d’Arte I dipinti intesi come copie, nei casi migliori, soro interrogazioni ossessive degli stessi oggetti, ostinatissime variazioni sul tema di un dipinto fortunato.
I loro artefici, altresì, sembrano mossi dall’esigenza di scrutare palmo a palmo l’intera superficie, la pelle delle cose, per individuare l’incrinatura, il varco sottile che consente di andare al di là, di cogliere la motivazione profonda e segreta che spinga a guardare il mordo e a rappresentarlo. E seguendoli, in questo, allora si comprende meglio come essi escogitino, ad un certo punto, un’altra astuzia per risolvere lo stesso problema, quella cioè di osservare e rappresentare non più il reale, ma le rappresentazioni seconde del reale costituite dai dipinti di artisti del passato e dall’intera storia della pittura, della pittura come categoria in sé. Con l’aiuto di altri l’artista-copista pensa che diventi più facile, forse, individuare la fessura, il varco, appunto. Immaginiamo il pittore bloccato dalla fascinazione di un dipinto fortunato (La Gioconda di Leonardo, L’Odalisca di Ingres, I manichini di Seurat), mentre lo osserva attentamente e a lungo e intanto fa emergere il fantasma che gli sta dentro e che cerca tenacemente un accesso per affiorare alla superficie.
Forse è la stessa “visione di dormiveglia” di cui parla Max Ernst quando descrive “un ricordo d’infanzia, durante il quale un pannello in finto mogano situato di fronte al mio letto aveva avuto il ruolo di provocatore ottico di una visione di dormiveglia”; un ricordo affiorato più tardi insieme a “un’insopportabile ossessione visiva La somiglianza, spinta alle volte fino al limite del trompe-l’oeil, si rivela arche come differenza e la pratica artistica come un procedimento che tenta continuamente di avvicinarsi a un oggetto assente senza peraltro mai poterlo raggiungere. In questo senso la pittura è sempre un trompe-l’oeil. I d’après rivelano questa motivazione profonda, al di là del puro gioco dell’intelligenza e dell’ironia, che può essere letto quale sbarramento difensivo.
Il fatto è che la mimesi ossessiva, con cui gli artisti di oggi ridipingono le immagini modello (da Leonardo, da Ingres, da Seurat, da Picasso e da altri ancora), è, nello stesso tempo, anamnesi, in quanto è sorretta da uro sguardo che insegue un fantasma e che, proprio per questo, impercettibilmente modifica il modello dal momento in cui si propone di rappresentarlo con la massima fedeltà. Ciò che muta, soprattutto, lungo il processo di trasformazione, è un singolo elemento di sovente impercettibile e spesso riferibile al volto delle figure, che a poco a poco prendono la fisionomia di un’immagine fissa, quasi uno stereotipo: un volto definito nel corpo di una pittura che ha una sua forte concretezza fisica, e nello stesso tempo immagine fantasmatica, irreale, come una figura di un sogno ricorrente.
Il somigliante acquista così per i nostri il ruolo di una maschera e in quanto tale rinvia a qualcosa che sta al di là della maschera e dell’apparenza, a un segreto che la maschera rivelerebbe in parte e in parte nasconderebbe. Ma che cosa si nasconde dietro la maschera? | pittori dipingono sempre la stessa cosa, guardano la superficie riflettente dei quadri, ma sanno che non stanno guardando ciò che essi vorrebbero veramente vedere.
Fonte: Ufficio Stampa