"Per un Paese come il nostro, che ha dovuto combattere l'oppressione e la guerra, e che oppressione e guerra provocò in quelle terre d'Africa, il soccorso è un preciso dovere, ancor prima che politico, umanitario. Ma se è, di per certo, il nostro un inderogabile dovere umanitario, altrettanto è doveroso - e inderogabile - l'impegno dell'intera Unione Europea, affinché si smetta di scavare nel 'mare nostrum' la più grande fossa comune della storia".
Lo ha detto il sindaco di Pistoia, Samuele Bertinelli, durante la celebrazione del 25 aprile.
"A settanta anni di distanza dalla fine della seconda guerra mondiale, e a quasi vent'anni dalla fine delle guerre nella vicina ex Jugoslavia - ha aggiunto Bertinelli -, questa è la nuova guerra da combattere, con le sole armi della politica, della diplomazia internazionale e della umanità, attraverso le quali l'Italia e l'Europa unita possono e devono svolgere un ruolo centrale. Questa è la nuova liberazione che chiede, qui ed ora, il nostro corale impegno".
IL DISCORSO COMPLETO
"Buongiorno a tutti,
ringrazio le Autorità civili e militari, le associazioni partigiane, dei combattenti e dei reduci e tutti Voi per aver voluto rinnovare l'impegno che onoriamo ogni anno con identica, sentita, partecipazione per la celebrazione della Liberazione dell’Italia.
Esattamente settanta anni fa, il 25 aprile 1945, alle 8 del mattino, il Comitato di Liberazione Nazionale dell'Alta Italia, presieduto da Luigi Longo, Emilio Sereni, Sandro Pertini e Leo Valiani, proclamò via radio l’insurrezione a Milano e nei territori ancora occupati, chiedendo a tutti i partigiani operanti nel Nord Italia di dare l'assalto ai presidi fascisti e di imporre loro la resa.
Gli Alleati sarebbero giunti solo alcuni giorni più tardi.
Celebriamo e festeggiamo oggi la Liberazione dell'Italia; la fine della guerra; la sconfitta – non solo sul piano militare – del Fascismo; e soprattutto la conquista da parte degli italiani della propria dignità di popolo libero e democratico.
Come ogni anno, la nostra città, medaglia d’argento al valor militare, festeggerà la Liberazione con un programma ricco di appuntamenti che affianca alle celebrazioni solenni di stamattina tante altre iniziative popolari, sportive, musicali, ricreative, sociali e di rievocazione storica, a ricordarci la festa che spontaneamente, nei giorni successivi al 25 aprile 1945, invase Milano, nella quale fu il sindaco della Liberazione, Antonio Greppi, a invitare il popolo a ballare e a festeggiare in strada e in piazza, come a voler cancellare l'odio, la violenza e l'oppressione con un'esplosione collettiva di gioia e di spensieratezza.
Per ricordare quella grande festa popolare, ed in un certo senso riviverla, abbiamo voluto aderire all'iniziativa promossa a livello nazionale da ANPI, ARCI, Istituto nazionale per la storia del Movimento di Liberazione in Italia e Radio Popolare, Liberi anche di cantare e di ballare: ieri sera, alla mezzanotte, come in tante altre città italiane, anche a Pistoia sono risuonate le note di Bella Ciao, in una serata di musica e festa, organizzata al circolo Arci di Bonelle.
Siamo tutti chiamati oggi, dopo settanta anni, ad interrogarci sulla attualità della Resistenza.
Ed è, forse, soprattutto la mia generazione – quella dei nipoti di quanti combatterono, e in molti casi morirono, per donare all’Italia e all’Europa il più lungo periodo di pace che abbiano mai conosciuto – a doversi interrogare sul senso di questa festa. È passato un tempo sufficiente perché – grazie all’aiuto di una ricerca storica libera e non condizionata dalla vicinanza ai fatti straordinari e terribili di quegli anni – sia possibile indagare la nascita e la crescita di quel movimento popolare che consentì alla nazione di riscattarsi da un passato terribile, di affrontare con dignità e fierezza gli anni successivi alla guerra; una guerra che l’Italia aveva iniziato sul fronte sbagliato, quello del conculcamento delle libertà degli individui e dei popoli.
Possiamo meglio comprendere la rilevanza storica di quel passaggio difficilissimo e doloroso, riflettendo insieme su ciò che sarebbe stato se tantissimi italiani, di tradizioni culturali e orientamenti politici lontani tra loro e delle più disparate estrazioni sociali, non si fossero mobilitati, mossi dalla volontà di riscattare la propria Patria, dal desiderio di emancipazione sociale, dalla tensione morale e civile per la costruzione di una società migliore perché più giusta e più libera.
Cinquanta anni fa, nel 1965, chiamato a tenere, a Vercelli, il discorso per il ventennale della Liberazione, Norberto Bobbio disse: «Quale che sia il giudizio che diamo sulla guerra di Liberazione e sul movimento della Resistenza, è certo che questa guerra e questo movimento stanno alla base dell'Italia contemporanea. Non possiamo capire quello che siamo oggi senza cercar di capire quello che è avvenuto vent'anni fa. Quando un popolo ha scosso il giogo e ha unito la propria lotta a quella di tutti i popoli liberi d'Europa. La Resistenza – continuava Bobbio - è stata una svolta che ha determinato un nuovo corso della nostra storia: se la Resistenza non fosse avvenuta, la storia d'Italia sarebbe stata diversa, non sarebbe stata la storia di un popolo libero. Sfido chiunque a confutare questa verità».
Aveva ragione Norberto Bobbio.
Si tratta di una verità inconfutabile.
Se gli italiani non si fossero ingaggiati nella guerra contro gli occupanti nazisti e – anche – contro quei connazionali che scelsero di militare nell’esercito della Repubblica Sociale, perché – come ha ricordato Claudio Pavone – la Resistenza fu anche una guerra civile; se non vi fosse stato questo movimento popolare, diffuso e organizzato, la storia del nostro Paese sarebbe stata certamente diversa.
E certamente sarebbe stata peggiore.
Lo sforzo compiuto dal popolo italiano per liberarsi dal Fascismo e per conquistare la democrazia fu significativamente riconosciuto anche nelle dichiarazioni conclusive della Conferenza di Potsdam, tra il luglio e l'agosto del 1945: «L'Italia – fu scritto allora – è stata la prima potenza dell'Asse a rompere i rapporti con la Germania, alla cui sconfitta ha dato contributi materiali. Essa si è ora unita agli alleati nella lotta contro il Giappone. L'Italia si è liberata da sé dal regime fascista e sta facendo buoni progressi sulla via della restaurazione di un governo e di istituzioni democratiche. La conclusione del trattato di pace con il riconoscimento del governo democratico italiano renderà possibile ai tre governi di soddisfare il loro desiderio di appoggiare la richiesta dell'Italia di essere ammessa tra le Nazioni Unite».
La firma del trattato di pace avvenne il 10 febbraio del 1947, pochi mesi dopo il referendum che, instaurando la Repubblica, pose fine alla monarchia sabauda, irrimediabilmente compromessasi con il Fascismo, e mentre l’Assemblea costituente alacremente lavorava per redigere il patto fondativo, la Carta del 1948, nella quale ancora ci riconosciamo. Furono risolti tutti i problemi territoriali, ad eccezione di quello dolorosissimo e difficile del confine orientale, che trovò conclusione nel 1954, e l'anno successivo, il 14 dicembre 1955, l'Italia poté fare finalmente il suo ingresso nell'Assemblea delle Nazioni Unite. L'Italia rimase dunque sostanzialmente unita ed integra nella sua dimensione territoriale, ad esclusione di quei possedimenti coloniali che, al di là dei racconti edulcorati volti a rassicurarci con la favola degli italiani brava gente, rappresentarono una tra le più ignobili e macabre pagina della storia italiana. In nome di una riprovevole e ridicola ambizione imperiale, quelle imprese coloniali, depredarono paesi e martoriarono popoli. Quegli stessi popoli, a partire dai somali e dagli eritrei, oggi, come in una inesorabile nemesi storica, siamo chiamati a soccorrere, naufraghi, nel Mediterraneo. Per un Paese come il nostro, che ha dovuto combattere l’oppressione e la guerra, e che oppressione e guerra provocò in quelle terre d’Africa, il soccorso è un preciso dovere, ancor prima che politico, umanitario. Ma se è, di per certo, il nostro un inderogabile dovere umanitario, altrettanto è doveroso – e inderogabile – l’impegno dell’intera Unione Europea, affinché si smetta di scavare nel mare nostrum la più grande fossa comune della storia.
A settanta anni di distanza dalla fine della seconda guerra mondiale, e a quasi vent’anni dalla fine delle guerre nella vicina ex Jugoslavia, questa è la nuova guerra da combattere, con le sole armi della politica, della diplomazia internazionale e della umanità, attraverso le quali l’Italia e l’Europa unita possono e devono svolgere un ruolo centrale.
Questa è la nuova liberazione che chiede, qui ed ora, il nostro corale impegno.
La lotta di Resistenza fu anche – non dobbiamo dimenticarcelo – un movimento di riscatto teso al rivolgimento politico di un regime come quello fascista, al quale proprio l'Italia aveva dato i natali, facendosi esempio nefasto per il mondo. E fu, dunque, animata da un patriottismo politico, volto ad una vera e propria ricostruzione dell’identità nazionale. Dobbiamo infatti riconoscere che il nemico da combattere fu purtroppo un figlio legittimo del Paese, degenere, ma cresciuto nel suo seno. La lotta partigiana fu in definitiva l’impegno dell’Italia migliore per sradicare da sé una parte del suo stesso corpo.
Per questo, se oggi possiamo nutrire – e nutriamo – un sentimento di amore per il nostro Paese, se ci sentiamo orgogliosi di essere italiani, non può certo essere per il ricordo della grottesca baldanza che accompagnò le politiche di potenza e di conquista fasciste per le quali pagammo un tributo altissimo di sangue.
Il solo sentimento patriottico che possiamo coltivare oggi trova radici proprio nel sacrificio e nella lotta di coloro che, uniti dall'insopprimibile anelito per libertà e democrazia, ribellandosi al fascismo, permisero all'Italia di avere riconosciuta la propria dignità anche a livello internazionale e di non essere divisa e smembrata – come accadde invece alla Germania – per decisione delle potenze vincitrici.
La Resistenza nel nostro Paese fu anche un moto di emancipazione sociale al quale parteciparono non soltanto quanti combatterono sulle colline e sulle montagne, ma anche moltissimi altri, donne uomini, operai nelle città, contadini nelle campagne, intellettuali, professionisti, amministratori, i quali – tutti - si fecero rete di protezione per le brigate partigiane. La lotta per la conquista della libertà fu animata anche dall’aspirazione per la giustizia contro un regime liberticida e classista, sostenuto dalla complicità di una pseudo-borghesia parassitaria che aveva goduto per vent’anni di privilegi e ricchezze. Fu il moto per l’emancipazione di un popolo di lavoratori delle campagne e delle città, che era stato tenuto nell’ignoranza sotto il giogo di una ideologia totalitaria.
Il movimento resistenziale fu inoltre un moto di solidarietà internazionale che legò insieme nel nome della pace e della democrazia uomini e popoli diversi, provenienti anche da molto lontano. Rievochiamo ancora – a immagine di tutti gli altri – i nostri fratelli brasiliani, la cui memoria siamo tornati ad onorare, grati e commossi, solo pochi giorni fa. A questo moto civilizzatore parteciparono – come noto - molti soldati italiani, ed anche quei soldati che, trovandosi il giorno dell’armistizio fuori dai confini nazionali, in Montenegro, in Albania, in Grecia, si decisero a combattere, in solitudine, per la libertà. Tra loro, ricordiamo molti nostri concittadini che furono protagonisti di una vicenda storica rilevantissima, in parte dimenticata ed in parte rimossa, per indagare la quale il Comune di Pistoia ha promosso un ciclo di studi e di approfondimento tuttora in corso.
Patriottismo, giustizia sociale e solidarietà tra i popoli: se è stato questo il patrimonio valoriale della Resistenza, da «tramandare di padre in figlio»,come ci suggerisce il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, la sua fonte ispiratrice va rintracciata nella straordinaria forza morale che, traendo alimento dalla coscienza individuale della migliore gioventù di quegli anni, divenne una vasta e naturale alleanza di popolo. L’esempio per Pistoia è rappresentato, tra gli altri, da Silvano Fedi, Fabio Fondi, Giovanni La Loggia, Carlo Giovannelli, Manrico Ducceschi. Erano giovani studenti di quel liceo classico che più di ogni altra scuola incarnava, allora, un modello di pedagogia autoritaria e conservatrice al quale opposero – giovinetti – il metodo della libertà di pensiero nutrito dagli studi e dalla cultura. Il loro ricordo, ancor oggi, rappresenta la memoria viva e confortante di come ogni pensiero autentico, per definizione libero, sia destinato, prima o dopo, a sgretolare ogni forma di potere autoritario e coercitivo.
È contro la libertà di pensiero e la moralità che crescono il conformismo, il silenzio e l’indifferenza, solo al riparo dei quali, nella storia degli umani, si è giustificata la violenza di un potere opprimente. Non per caso, coloro che dichiararono il loro ripudio per l’indifferenza, come Antonio Gramsci, Giacomo Matteotti, i fratelli Rosselli, Piero Gobetti, Giovanni Amendola, furono le prime vittime dello squadrismo fascista.
Con la Resistenza il popolo italiano acquisì piena coscienza di sé, divenendo, a giusto titolo, con gli altri popoli liberati dal nazifascismo, fondatore dell’unità europea, nel nome della pace, dei diritti e della libertà.
Pietro Ingrao, del quale poche settimane fa abbiamo festeggiato il centesimo compleanno con il sentimento di una profonda gratitudine per le passioni di una vita e le rivolte condotte in nome della dignità, dell’eguaglianza e della giustizia, ha colto esattamente come il frutto di questo impegno si sia sedimentato nella Costituzione italiana: «in realtà» - ha scritto Ingrao - «quando la Costituzione all’articolo 1 parlava di sovranità popolare (definì così il «sovrano»), e affidava determinati poteri legislativi e di indirizzo (oltre che di controllo) al parlamento, e chiamava i partiti ad organizzare la direzione politica del Paese faceva una operazione assai meno “letteraria” (stavo per dire “retorica”) di quello che sembri. Non solo indicava le necessarie basi di massa di un governo democratico ma definiva in qualche modo un processo, un rapporto, una osmosi, in cui il governo, il momento del «comando» continuamente traeva la sua forza (e quindi la sua autorità reale) da un contatto col Paese e da una partecipazione di base alla elaborazione delle scelte fondamentali. E in questo modo non solo sceglieva la prospettiva della democrazia, ma dava un segno, un contenuto, un compito di emancipazione, vorrei dire di sviluppo umano, a tale democrazia. Qui la Costituzione si collegava ad un moto profondo, emerso nel cuore del nostro secolo, coglieva un bisogno storico. E indicava una bandiera non da poco: per tutta un’epoca». È la bandiera – ci ripete Ingrao – della libertà e della emancipazione individuale e collettiva. È questa bandiera che dobbiamo raccogliere e che sola può motivare oggi un rinnovato ed orgoglioso senso di appartenenza alla comunità nazionale e a quella più ampia dell’Europa.
Il sentimento che guidò i giovani italiani nella lotta di liberazione del nostro Paese conteneva già in sé una dimensione europea e non soltanto nazionale. La passione europeista è andata evolvendosi, non senza battute d’arresto e contraddizioni, dagli anni Cinquanta fino agli inizi del XXI secolo, quando, dopo i Trattati di Maastricht, e l’Unione Monetaria, sembrava finalmente imminente il varo della Costituzione Europea. Quel Trattato, pubblicato nel 2004, poggiava sulla convinzione che l’Europa, - cito letteralmente – «ormai riunificata dopo esperienze dolorose» avrebbe dovuto «avanzare sulla via della civiltà, del progresso e della prosperità per il bene di tutti i suoi abitanti, compresi i più deboli e più bisognosi» eavrebbe dovuto«operare a favore della pace, della giustizia e della solidarietà nel mondo; PERSUASI che i popoli d'Europa, pur restando fieri della loro identità e della loro storia nazionale» avrebbero dovuto decidersi «a superare le antiche divisioni e, uniti in modo sempre più stretto, a forgiare il loro comune destino; CERTI che, "Unita nella diversità", l'Europa»avrebbe offerto «ai suoi popoli le migliori possibilità di proseguire, nel rispetto dei diritti di ciascuno e nella consapevolezza delle loro responsabilità nei confronti delle generazioni future e della Terra, la grande avventura che fa di essa uno spazio privilegiato della speranza umana».
Sono trascorsi, da allora, più di dieci anni, ma il Trattato non è ancora divenuto la Carta costituzionale d’Europa, a causa di colpevoli diffidenze reciproche tra i governi, delle paure ataviche del diverso, di istinti regressivi e nazionalisti che hanno conquistato consensi nelle elezioni politiche di diversi Paesi e anche nelle elezioni europee. Oggi, per questo, a prevalere sembrano essere soltanto la Banca Centrale Europea e la forza dei governi degli Stati economicamente più influenti e forti, mentre stenta ancora ad affermarsi una vera politica estera europea, come dimostrano purtroppo anche le ritornanti, vergognose, tragedie che si consumano nel Canale di Sicilia.
Il più importante compito della generazione che ha oggi responsabilità di governo consiste, allora, nel recuperare il patriottismo europeo dei movimenti resistenziali e del Manifesto di Ventotene, in risposta ad egoismi nazionali che rischiano di ridurre il continente europeo ad una sempre più piccola ed ininfluente area del mondo, afflitta da rancori e paure. Se continueremo a sostenere la supremazia dell’economia e dei mercati finanziari, di contro al primato della politica democratica e alla forza dei diritti umani, gli abitanti d’Europa non potranno sentirsi davvero cittadini europei.
Soprattutto per questo l’Italia di oggi dimostrerà di onorare degnamente il ricordo della sua Liberazione solo se saprà rilanciare, con coraggio e determinazione, l’ideale, concreto e possibile, di un’Europa unita e federata, democratica e solidale.
È la storia delle democrazie europee sorte dalla lotta di Liberazione ad insegnarci che solo un esercizio della libertà individuale intesa come impegno sociale può ispirare, nel solco dell’insegnamento del nostro concittadino onorario Amartya Sen, un programma d’azione rispettoso dei valori partigiani, perché «la libertà individuale è non solo un valore sociale centrale, ma anche un inseparabile prodotto sociale». La libertà prospera e cresce, infatti, soltanto se esercitata congiuntamente a quelli che la nostra Costituzione definisce «doveri inderogabili di solidarietà».
Può soccorrerci in questo lavoro quotidiano per la costruzione di una comunità più consapevole e responsabile, più equa e più solidale, una prospettiva che mai semplifichi, riducendola ad un’unica dimensione, l’incomprimibile, spesso drammatica ma comunque ricca, complessità della vicenda umana.
È questa – credo – anche la strada che dobbiamo percorrere per tentare di riconciliare, con spirito di verità e senza semplificazioni livellatrici, il noi diviso di cui ha parlato Remo Bodei. La costruzione di una memoria condivisa, come scrive Gustavo Zagrebelsky, non può dunque confondersi con la deprecabile «glorificazione della zona grigia», che taluni sbrigativamente hanno proposto, confondendo e facendo equivalere le scelte compiute su fronti opposti. Fu soltanto quel patto / giurato tra uomini liberi / che volontari si adunarono / per dignità non per odio / decisi a riscattare la vergogna e il terrore del mondo a restituire all’Italia e agli Italiani, e dunque a noi, la libertà e la democrazia che celebriamo oggi.
Buona Liberazione a tutti!
Viva l’Italia!
Viva la Repubblica democratica e antifascista!".