La storia di Carlo Castellani al seminario su sport e seconda guerra mondiale

Due giorni fa, il Presidente del Consiglio Matteo Renzi ha visitato Marzabotto, città martire della Resistenza al nazifascismo, segnata dalla maggior strage di civili dell’Europa occidentale durante l’ultima guerra mondiale. Il massacro di Marzabotto, avvenuto in realtà nei borghi che popolavano il sovrastante Monte Sole, fu la conseguenza dell’ordine di Hitler di apprestare l’estrema difesa militare sulla “Linea gotica”, i 300 km di fronte che correvano dalle Alpi Apuane all’Appennino tosco-emiliano: la necessità della Wehrmacht di “ripulire” il territorio dall’ingombro delle popolazioni, produsse i massacri che costellarono gli ultimi mesi di guerra. La carneficina di Marzabotto costò la vita a 771 persone, di cui 316 donne e 189 bambini.
Nella stessa cittadina emiliana, il 18 aprile scorso, la Società Italiana di Storia dello Sport (SISS) ha tenuto il suo seminario annuale, dal titolo "Sport e seconda guerra mondiale. Dal totalitarismo nazifascista all'eredità della Resistenza". Come al solito sfidando lo scetticismo che circonda una branca degli studi storici ancora poco frequentata nel nostro paese, la SISS è andata alla ricerca dei legami che uniscono lo sport al conflitto mondiale e al movimento resistenziale.
All’incontro, era presente anche il Comune di Empoli, rappresentato dall’assessore allo Sport, Fabrizio Biuzzi, da chi scrive e da Franco Castellani, il figlio del noto Carlo Castellani, l’ex calciatore dell’Empoli che finì i suoi giorni in un campo di concentramento e a cui è intitolato lo stadio della nostra città. Proprio il racconto della storia di Carlo Castellani è stato il contributo empolese al convegno della SISS.
Castellani nacque a Fibbiana il 15 gennaio 1909. L’accendersi del suo interesse sportivo fu coevo alla fondazione del calcio a Empoli, che risale al 1920. Secondo il figlio Franco, che abita ancora la casa avita e che aveva solo sei anni quando il padre fu deportato, aveva una sorta di talento naturale, sbocciato per giunta senza che fosse minimamente alimentato dagli uomini di casa. Quell’innata predisposizione fu sviluppata dalla pratica e dall’incontenibile passione: Carlo fu presto reclutato dal neonato sodalizio empolese e, a soli 16 anni, esordì con la prima squadra in amichevole. L’anno dopo, era pronto per il campionato vero e proprio, che l’Empoli disputò in Terza Divisione, l’attuale quarta serie. Il debutto ebbe luogo il 7 novembre 1926, sul campo di Carraia. Schierato in avanti, insieme a Emilio Ramagli, Castellani andò subito in gol e contribuì in modo decisivo alla roboante vittoria per 4-3 sull’Assi Firenze. La coppia d’attacco azzurra si rivelò troppo forte per le difese avversarie e il campionato si trasformò in una marcia trionfale: la promozione fu conquistata con ben 11 vittorie e una sola sconfitta, per un totale di 52 gol fatti contro solo 12 subiti. Le reti di Castellani furono 16, incluse le tre segnate nel torneo di finale interregionale.
La stagione 1928-29 iniziò con il magiaro Hristinus in panchina, che poteva contare su una rosa quasi interamente composta di giocatori empolesi. Anche per questo il seguito del pubblico fu più caloroso che mai e il terreno di Carraia si rivelò un fortino inespugnabile. In undici partite casalinghe, gli azzurri totalizzarono altrettante vittorie e si lanciarono in testa alla classifica guidati dal tandem offensivo Castellani-Ramagli. Il 6 gennaio 1929, i tifosi assistettero al classico festival del gol, con il San Giorgio Pistoia travolto per 8-5: Castellani ne segnò addirittura cinque, un record che aspetta ancora di essere eguagliato. Alla fine dell’anno, il suo score personale totalizzò addirittura 22 reti in altrettante partite. Unite alle 11 segnate da Ramagli, furono più che sufficienti per conquistare la promozione in Prima Divisione. Anche il campionato successivo fu ricco di soddisfazioni e Castellani fu acquistato dal Livorno per il torneo d'esordio della serie A a girone unico, divenendo così il primo giocatore uscito dal vivaio locale a giocare nella massima serie. Castellani disputò 25 partite, ma non poté evitare la retrocessione dei labronici. Secondo le incerte statistiche dell’epoca, andò in gol per tre volte (altre fonti ne registrano solo due), realizzando una doppietta nella sconfitta per 2-3 contro il Casale (che in effetti costò al Livorno la serie A, proprio a vantaggio dei nero-stellati) e il pareggio all’ultima giornata contro i neo-campioni d’Italia della Juventus. Castellani rimase a Livorno altre due stagioni e sempre sulla costa fu poi acquistato dal Viareggio, che lasciò al termine della serie B 1933-34, per tornare all’Empoli. Secondo le memorie familiari, la volontà o il bisogno di seguire più da vicino la segheria di famiglia furono le ragioni che consigliarono a Castellani di vestire ancora la maglia azzurra, pur a costo di scendere di categoria.
Castellani cadde vittima del rastrellamento organizzato dai fascisti dopo lo sciopero generale del 4 marzo 1944. Nella notte fra il 7 e l’8 marzo, una pattuglia di repubblichini e carabinieri, coadiuvati da un vigile comunale che conosceva i recapiti di ognuno, passò casa per casa a sequestrare i malcapitati. Dalla casa di Carlo intendevano prendere il padre David, che era conosciuto come socialista turatiano. Il convoglio che recava la morte si diresse verso piazza della Chiesa, a Fibbiana. Gli scherani bussarono all’uscio giusto. Secondo la ricostruzione effettuata da Alfio Dini in La notte dell’odio (Nuova Fortezza, 1986), il colloquio che seguì fu più o meno questo:
- Castellani David! è in casa? […] in nome della legge, rispondete!
[…] Carlo, mentre indossava qualcosa, urlò attraverso le porte: vado io, babbo, rimani a letto tu […]. Chi è, cosa volete?
- Oh!... Carlo, sei tu? Vogliamo David, tuo padre. Deve venire con noi dal maresciallo.
Carlo aveva ben riconosciuto la voce, era di un suo ottimo amico: Orazio Nardini. Ciò lo rassicurò alquanto.
- Orazio, mio padre è ammalato […] posso venire io dal maresciallo e chiedere cosa vuole? […]
- Va bene, se vuoi, vieni pure tu!
Così fu decretata la condanna a morte di Castellani, tradito di fatto da un amico fidato, forse desideroso di una rivalsa nei confronti di un giovane con brillanti trascorsi sportivi e di una famiglia con un’attività commerciale ben avviata. Tradotto a Mauthausen, insieme agli altri 111 deportati dell’empolese, Castellani fu spostato nel sottocampo di Gusen I, dove Aldo Rovai, fra i pochi sopravvissuti, lo trovò in condizioni disperate a causa della dissenteria nel lazzaretto del campo: secondo le ricostruzioni successive, Castellani morì l’11 agosto 1944. Alla famiglia, l’amico Aldo riportò le sue ultime parole: «Racconta come sono morto!… Dì loro quanto ho sofferto… più di Gesù Cristo!».
Fra gli altri contributi del seminario, vale la pena ricordare quello del prof. Paul Dietschy, giunto dall’Università di Besançon per proporre un parallelismo italo-francese sulla relazione con lo sport del regime mussoliniano e dei partigiani, da una parte, e del regime di Vichy e dei maquisard dall’altra. Se Mussolini si era autoproclamato il primo sportivo del fascio, il maresciallo Pétain, che resse il governo fantoccio durante l’occupazione hitleriana, aveva avuto modo di sperimentare il potere suggestionante del calcio durante il primo conflitto mondiale e uno dei suoi primi atti da capo del Governo fu di affidare a Jean Borotra, celebre campione di tennis, il ruolo di incarnazione dei valori sportivi nazionali, nominandolo Commissario generale allo Sport. Fu dunque con la disfatta del 1940 che in Francia fu messa per la prima volta in cantiere una politica sportiva vera e propria: autoritaria, gerarchica, centralista, ma di respiro realmente nazionale. È noto che il cosiddetto “corpo sportivo” era uno dei simboli più attraenti della propaganda fascista, mentre l’esaltazione dei successi sportivi e la promozione dell’educazione fisica, lodata dalla libera stampa francese negli anni ’30, servivano magnificamente come cemento nazionalistico e come strumento di indottrinamento e controllo, soprattutto delle masse giovanili. Nelle edizioni clandestine, l’Avanti! attribuiva allo sport la funzione di smorzare l’energia rivoluzionaria della gioventù, mentre per le formazioni partigiane delle Langhe, il corpo ben allenato e guizzante faceva da contrasto all’assenza di passione e spiritualità: scopo del regime era forgiare corpi vigorosi, ma acefali. Eppure, registravano con preoccupazione gli organi clandestini della Resistenza piemontese, la modernità sportiva del regime poteva penetrare e sedurre anche le organizzazioni sovversive operaie e lo stesso Nuto Revelli, nel suo Le due guerre. Guerra fascista e guerra partigiana (Einaudi, 2003) ricorda di aver pensato da adolescente che fascismo e sport fossero la stessa cosa e di esser stato assai orgoglioso delle vittorie e delle medaglie che aveva conquistato nelle competizioni organizzate dall’Opera nazionale balilla.
Per tutti questi motivi, non fu semplice per i movimenti antifascisti accostarsi allo sport con spirito scevro da pregiudizi. Da un lato, vi erano urgenze di ben maggiore rilievo che inducevano a considerare lo sport qualcosa di poco importante (sottovalutazione che spiega almeno in parte, nei due paesi, l’assenza di epurazioni dentro le federazioni sportive); dall’altro, le politiche sportive di Mussolini e Pétain rappresentavano dopotutto eredità accettabili dei regimi autoritari, a condizione che lo sport fosse democratizzato e sfrondato dei significati militari, d’inquadramento ideologico e di propaganda nazionalista.
Valerio Piccioni, giornalista della Gazzetta dello sport, ha caldeggiato un approccio metodologico che mescoli la macrostoria con la microstoria, che sveli i singoli percorsi umani che si celano dentro le grandi dinamiche storiche e che sono suscettibili di incrementare l’interesse e la comprensione del pubblico. Emblematica è, a questo riguardo, la traiettoria di Manlio Gelsomini, martire delle Fosse Ardeatine, medico affermato e velocista con tanto di titoli regionali, nonché pioniere del gioco del rugby in Italia. In principio, Gelsomini era il prototipo del modello di virilità sbandierata dal regime: studia, si allena, gareggia e, alle Universiadi di Parigi del 1928, fa a cazzotti con esuli antifascisti per difendere l’onore della patria. Poi, qualcosa muta nella sua visione del mondo: forse il contatto con il quartiere popolare di San Lorenzo, o con un tirocinante ebreo che lo affianca nella cura dei pazienti, oppure l’adesione a una sigla sindacale, o magari un insondabile processo di maturazione interiore. Quale che sia la ragione, l’8 settembre 1943, aderisce alla Resistenza e viene poi arrestato come partigiano comunista nel gennaio 1944.
Infine al prof. Andrea Marchi, docente di storia e già presidente dell’Istituto storico della Resistenza di Bologna, è toccato il compito di osservare argutamente un aspetto banale ma spesso trascurato. Se il poeta Ralph Waldo Emerson attribuiva alla guerra la capacità di educare i sensi, chiamare in azione la volontà e perfezionare la costituzione fisica, Marchi ha ricordato che per salire in montagna e infoltire le file dei partigiani, occorreva un fisico atletico e sportivo, in grado di sopportare faticose marce in aree impervie, di resistere a lunghi digiuni, di vincere il gelo, il caldo e la pioggia senza abiti adeguati, di confrontarsi con altri giovani e sopraffarli quando necessario.
Fra questi “atleti”, figurarono molte donne e il focus sulle storie personali ha consentito alla sociologa Silvia Lolli di valorizzare il contributo “sportivo” al movimento resistenziale delle donne, che inforcarono la bicicletta (come Tina Anselmi o Lidia Menapace), e recapitarono ordini, lettere, armi, medicine alle postazioni dei ribelli, mettendo inoltre a disposizione le proprie case per il riposo, il ristoro e l’occultamento dei partigiani. Le donne furono pertanto i nodi cruciali della rete di solidarietà collettiva e diffusa che, in ultima analisi, rese possibile la Resistenza.