Conclusa la stagione NCAA di basket: quale futuro per i giocatori?

Si è chiusa il giorno di Pasquetta, a Indianapolis, la stagione di pallacanestro universitaria negli Stati Uniti. Per la quinta volta nella storia, hanno trionfato i Blue Devils di Duke University (nella foto sopra, un momento della premiazione), che hanno ribaltato il pronostico e sconfitto i favoriti della Wisconsin University, mandando in visibilio i propri tifosi e le decine di milioni di appassionati che seguono ogni anno l’elettrizzante conclusione del lungo torneo. Cinquant’anni fa, il campionato di basket universitario non si era ancora trasformato nell’odierna March madness, la follia marzolina che avvince per tre settimane gli Stati Uniti d’America, mentre le migliori 68 facoltà del paese si danno battaglia per scremare le elette delle entusiasmanti Final Four, come al solito sotto l’egida della National Collegiate Athletic Association (NCAA), la più grande organizzazione sportiva universitaria del mondo.
Il 19 marzo 1966, c'era pochissima eccitazione intorno al titolo NCAA. La palla a due fu scodellata all'improbabile orario delle 10 di sera e poche telecamere erano presenti per registrare le immagini che sarebbero state rilanciate in differita solo in alcune città americane. Eppure, quando Kentucky Wildcats e Texas Western Miners si affrontarono nella partita decisiva sul parquet dell’Università del Maryland, sul limitare della Linea Mason-Dixon, la simbolica riga di demarcazione fra gli Stati abolizionisti del Nord e quelli schiavisti del Sud, si compì un piccolo fatto storico: Don Haskins, il coach dei Miners, presentò un quintetto composto di soli giocatori di colore e vinse il trofeo. Fino a quel momento, al culmine delle lotte per i diritti civili, un anno dopo la manifestazione oceanica che Martin Luther King aveva guidato da Selma a Montgomery, inducendo il presidente Lyndon B. Johnson a firmare il Voting Rights Act per garantire il diritto di voto alle minoranze razziali, nessuna squadra aveva mai schierato cinque neri in alcuna gara NCAA. Nel 1961, la Loyola University di Chicago aveva infranto il patto non scritto che consigliava vivamente agli allenatori di non far giocare più di tre giocatori neri, schierandone quattro. La scelta fu poi ripetuta contro Cincinnati nella vittoriosa finale del 1963. A quella finale, Loyola era giunta anche per aver superato in un turno precedente i Maroons della Mississippi State University, che applicava rigidamente i protocolli segregazionisti e rifiutava di conseguenza di confrontarsi con squadre che allineavano giocatori neri. La partita si poté giocare perché il coach dei Maroons sfidò il divieto a lasciare la città che un giudice aveva elevato contro la squadra, su richiesta di un senatore del Mississippi.
Per compiere il salto dalla maggioranza alla totalità dei giocatori neri, occorreva mettersi alle spalle anche gli stereotipi culturali e sportivi dell’epoca, secondo i quali un quintetto all-black era votato al caos e all’insuccesso dalla sua stessa composizione. Almeno un giocatore bianco era perciò necessario, affinché potesse disciplinare il gioco con la sua stabilizzante presenza. L’Università del Kentucky si atteneva al punto a tali linee guida che l’allenatore Adolph Rupp aveva sempre e soltanto selezionato giocatori bianchi, con cui aveva già vinto quattro campionati a partire dal dopoguerra. La finale del 1966 fu pertanto lo scontro fra due modi di intendere il basket e la vita. La storia impose che l’ultimo, epocale cambiamento nel processo di integrazione dei giocatori di colore scaturisse da un duello fra il buono e il cattivo: Haskins e Rupp incarnavano alla perfezione gli opposti ruoli.
Dopo la vittoria di Texas Western, la pressione al cambiamento prodotta dalla contesa sportiva innescò una crescente integrazione anche nelle squadre del Sud, che cominciarono a reclutare giocatori neri per restare competitive a livello nazionale. Oggigiorno, gli atleti di colore sono la maggioranza nelle squadre universitarie (ancorché gli studenti neri siano una risicatissima minoranza della popolazione universitaria) e le preoccupazioni si appuntano semmai sui livelli di riuscita accademica di questi studenti. Dato che meno dell’uno per cento di loro riesce a spuntare un contratto da professionista dopo gli anni del college, risulta chiaro che il successo scolastico costituisce l’unica speranza di transizione positiva dai banchi di studio al lavoro.
Secondo le statistiche più recenti, il tasso medio di laureati fra i giocatori afroamericani è pari al 65%. Si tratta di un valore assai incoraggiante e in decisa ascesa rispetto ai dati del 2003 (solo il 35% di atleti laureati) e anche del 2008 (51%), ma comunque ancora distante dal tasso dell’89% che fanno registrare i giocatori bianchi. Questi miglioramenti dipendono in parte dalle nuove regole votate dalla NCAA, che ha cercato di mettere in relazione il successo sportivo con quello accademico, sanzionando e squalificando le facoltà con tassi di riuscita scolastica troppo bassi, com’è capitato all’Università del Connecticut, che aveva vinto il torneo nel 2011 e che fu estromessa dalle finali del 2013 per i miseri esiti accademici dei suoi atleti.
Il legame perverso esistente fra la spinta al successo sportivo e l’arruolamento di atleti di colore è ben rappresentato da un’altra statistica illuminante, visto che il 65% di laureati fra gli atleti neri è nettamente migliore del 38% di laureati fra tutti gli afroamericani maschi che si iscrivono all’università. Il dato rende ancora attuale l’accusa lanciata oltre vent’anni fa da Arthur Ashe, il campione di tennis degli anni ’60 e ’70 che fu il primo nero convocato nella squadra di Davis americana e ancora oggi il solo nero ad aver vinto i tornei di Wimbledon e Flushing Meadow. A suggello di una requisitoria circostanziata, Ashe concludeva amaramente: «Il messaggio è semplice: ci amate come atleti, ma siete indifferenti al nostro successo scolastico. Siete pronti a stipendiare consulenti e tutor che aiutino gli atleti neri a restare in pari con gli esami, ma non siete disposti a fare lo stesso con i neri non-atleti».
In uno studio pubblicato sulla rivista The Atlantic, lo storico Taylor Branch, noto per le sue ricerche sul reverendo King e sul movimento per i diritti civili, ha messo il dito nella vera piaga che è all’origine delle distorsioni che inquinano lo sport universitario americano: il denaro. Gli Stati Uniti sono il solo paese che ospita sport di alto profilo a livello di istruzione superiore e questa singolarità è profondamente radicata nella cultura della nazione. La passione che ne scaturisce genera milioni di dollari di profitti, grazie alla vendita dei biglietti delle partite e dei diritti d’immagine, al vario merchandising e soprattutto ai contratti televisivi. Questo fiume di soldi ingrassa i fatturati delle compagnie private e rimpingua i bilanci delle università, innescando sempre più frequentemente casi di corruzione e di pagamenti sottobanco a favore delle famiglie dei giocatori più bravi. Ma il vero scandalo, secondo Branch, non è che gli studenti siano selezionati o pagati illegalmente, quanto che i princìpi del dilettantismo e dell’atleta-studente che informano la propagandata filosofia della NCAA siano mere foglie di fico di un sistema paternalistico, che cela lo sfruttamento del talento e della fama di atleti non remunerati per fini di tornaconto economico. Laddove si consideri che il novanta per cento degli introiti della NCAA è reso possibile dall’uno per cento degli atleti e che, di questi, il novanta per cento è costituito da afroamericani, ecco che si comprende l’azzardato paragone che Branch propone con la schiavitù: corporation e università si arricchiscono alle spalle del lavoro non ricompensato di giovani di colore.