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La fuga dal Kosovo e l'arrivo Italia tra gommoni e kalashnikov: la storia di Moni

 

Hatmone Hadargjonaj

Hatmone Hadargjonaj

 

La storia di Moni risale a qualche anno fa, ma dal suo racconto, si può partire per ricostruire molte delle vite di chi raggiunge la nostra terra, portando con sé il proprio vissuto, le proprie esperienze.

Hatmone Hadargjonaj è una donna kosovara, fuggita dalla propria casa nella notte del 13 giugno 1998, bombardata dall’esercito serbo.

Hatmone, Moni, è una di quelle persone che nelle guerre ci finiscono, loro malgrado.

“Avevo una vita tranquilla – ricorda durante l’iniziativa organizzata alla casa del popolo di Pagnana a Empoli – facevo la maestra e vivevo con mio marito e le mie tre figlie. Sotto la nostra casa mio marito aveva una falegnameria. Gli affari andavano bene ed eravamo felici. Quello che ci è successo ancora oggi non me lo spiego”.

In quella terribile notte la guerra arrivò in casa di Moni, inaspettata: “Sentii un grande boato, mio marito arrivò su dalla falegnameria e mi disse di prendere le bambine. Ero incinta di otto mesi, nel giro di qualche minuto ero fuori casa, mi voltai e la vidi bombardata”.

La vicenda di Moni è racchiusa nel libro ‘La camicia bianca, storia di una guerra ignorata’ scritta da Franco Santini.

“Della guerra del Kosovo, - ha detto l’autore del libro - così come delle guerre che incendiarono i Balcani negli anni Novanta si è sempre parlato poco, alla televisione si vedevano le immagini di queste persone che fuggivano ma, nonostante, si trovassero geograficamente molto vicino a noi, non abbiamo fatto niente per impedire quello che è stato”.

“L’idea del libro – ha spiegato Franco  - è quella di far capire che dietro ogni profugo, ogni persona che arriva in Italia c’è una storia alle spalle. Il libro ha girato e sta ancora girando moltissime scuole. Ogni volta i bambini rimangono in profondo silenzio ad ascoltare la triste storia di Moni. I bambini sanno avere un’empatia autentica verso le persone e ne comprendono il dolore”.

Franco Santini, Hatmone Hadargjonaj e Francesca Scappini

Raccontare la propria storia è per Moni, un modo di non dimenticare quello che è stato, per trasmettere tutto quello che di terribile può fare la guerra.

“Ho sofferto moltissimo. L’orrore che ho visto in quei giorni non potrò mai dimenticarmelo”.

Scappati dalla propria casa e raggiunto il bosco Moni rimase con la famiglia per qualche giorno, poi decise insieme al marito di tornare a vedere se potevano rientrare in casa, lasciando le figlie ad altre persone fuggite con loro. La casa era bombardata e bruciata. Rientrando il marito di Moni venne fermato dall’Uck, l’esercito per la liberazione del Kosovo e dovette lasciare sola Moni.

“Camminando verso le mie bambine, da sola, - ricorda commossa Moni – vidi tanti morti per la strada, riconobbi i miei cugini, uno in particolare lo riconobbi dal braccio, visto che portava l’orologio che gli avevo regalato”.

Moni partorì la sua Fitore (Vittoria) sotto un castagno e svenne. “Mi risvegliai e vidi che la mia bambina stava bene ed era sana”.

Appena partorito Moni e gli altri fuggitivi si misero in viaggio. Dopo venti ore raggiunsero l’Albania.

Da lì Moni e le quattro bambine vennero ospitate in una casa e, dopo due mesi, anche il marito tornò dalla guerra sano e salvo.

Da qui la decisione di raggiungere l’Italia con i gommoni che partivano nella notte da Valona. “Mi feci inviare mille marchi a testa da mio padre, questa era la tariffa fissa, uguale per adulti, bambini e neonati”.

La storia di Moni è anche in questo passaggio di un’attualità terribile: “Eravamo in 47 su un gommone da 15 persone. Gli uomini dell’organizzazione parlavano italiano, ma io all’epoca non li capivo, ci puntavano contro i kalashnikov. Io tenni stretta a me le mie quattro creature mentre mio marito con gli altri uomini ci facevano da scudo. Arrivammo a Brindisi sani e salvi ma fu per me l’ora e mezzo più lunga della mia vita”.

Da lì i profughi vennero tenuti tre giorni nella pineta sotto minaccia. “La nostra idea era quella di raggiungere in Svizzera mio padre, poi fummo fermati perché non avevamo documenti”.

Dopo varie vicissitudini oggi Moni e la famiglia, che si è poi arricchita di un figlio maschio, abitano a Cecina.

“Mi è capitato varie volte che i miei figli tornassero a casa piangendo,  riportando le frasi che altri bambini dicevano loro, come quella celebre ‘siete venuti a rubarci il lavoro’. Noi siamo qui perché altri ci hanno rubato qualcosa: la possibilità di vivere felici nella nostra terra”.

“Ho ricostruito una casa in Kosovo, per dimostrare ai bambini che ora ‘lì non c’è il fuoco’ e che si può tornare, ma anche se ora non ci sono più le bombe, vivere là è difficile”.

A sedici anni dalla fine del conflitto ancora il Kosovo è una terra martoriata: le ferite della guerra cono ancora visibili e la povertà è grande.

C’è chi definisce il piccolo stato (dichiaratosi indipendente nel 2008) una ‘America europea’, dove si mangia balcanico ma si paga in euro, in mezzo agli americani che ancora ci sono.

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