Il precedente abisso del calcio italiano

Domenica scorsa, il canale pubblico della televisione tedesca trasmetteva la partita Spagna-Germania. In contemporanea, sulla RAI, c’era Italia-Albania. Il contrasto non poteva essere più stridente, apparivano due sport diversi. A Vigo, manovre rapide e ficcanti, passaggi precisi e veloci, ricorrenti occasioni da rete. A Genova, in un intervallo alluvionale e contro un avversario modesto, il gioco azzurro era asfittico come non mai e la via del gol assomigliava a un rompicapo irrisolvibile. L’ennesima prova deludente degli azzurri ha comprensibilmente aperto un diluvio di critiche sugli organi di stampa e abbozzi di analisi su un declino che sembra inarrestabile.
La solita disattenzione ai corsi e ricorsi storici non ha consentito ai più di individuare la curiosa coincidenza temporale con il precedente nadir dell’Italia pallonara. Il 20 novembre 1974, a Rotterdam, il neo selezionatore Fulvio Bernardini, in procinto di essere affiancato come allenatore da Enzo Bearzot, mandò in campo una formazione rinnovatissima contro la magnifica Olanda di Johan Cruijff e Wim Van Hanegem. Si trattava di una gara di qualificazione agli Europei, che si sarebbero disputati nel 1976, in Jugoslavia. Fu la rottamazione della stirpe dei “messicani”, che avevano conquistato il titolo continentale nel 1968, due anni dopo perso la finale mondiale contro il Brasile a Città del Messico e che erano diventati irrimediabilmente vecchi e superati nel breve volgere di un paio di settimane durante la Coppa del Mondo tedesca del 1974.
La nazionale di Ferruccio Valcareggi era giunta in Germania con il ruolo di favorita. Non perdeva da due anni e Dino Zoff era imbattuto da ben 12 partite. Il girone eliminatorio fu un ostacolo insormontabile, contro un’Argentina modesta e la grande Polonia di Kazimierz Deyna e Gregorz Lato. Le difficoltà fecero deflagrare lo spogliatoio azzurro, che si divise in fazioni contrapposte e provocò il naufragio agonistico, mirabilmente ritratto da Giovanni Arpino in Azzurro tenebra, un romanzo crepuscolare che ricorse alla simbologia sportiva per tratteggiare il destino tragico di un paese votato al degrado materiale e alla decadenza morale.
Il match di Rotterdam fu l’esordio azzurro di Giancarlo Antognoni, che otto anni dopo, insieme all’inossidabile Zoff, avrebbe contribuito alla conquista del terzo alloro iridato, al termine dell’entusiasmante cavalcata spagnola. Proprio il ventenne regista viola, già al quinto minuto di gioco, servì un prezioso assist a Roberto Boninsegna, che anticipò l’intera difesa orange e schiacciò in rete la palla del sorprendente 1-0. Antognoni segnò addirittura con un potente destro da fuori area, che si infilò all’incrocio della porta difesa da Jan Jongbloed. L’arbitro però aveva interrotto il gioco per un precedente fallo dell’azzurro.
Fu un fuoco di paglia. L’Olanda, che aveva incantato ai Mondiali tedeschi cedendo in finale ai fortissimi padroni di casa, riprese in breve il sopravvento e cominciò un assalto tambureggiante. Il divario era palese, non meno tecnico che culturale, con il calcio totale al suo apogeo, proiettato nel futuro del gioco, distante anni-luce. L’inadeguatezza e il ritardo dell’Italia trasparivano anche dalla telecronaca di Nando Martellini, che si rivolgeva ai giocatori olandesi con deferenza. Il parimenti esordiente Andrea Orlandini, una delle tante meteore di quel periodo di caotica ricerca di nuovi talenti, fu spedito sulle tracce del “profeta del gol”, che fatalmente ne fece polpette. Cruijff marcò due volte, dopo il subitaneo pareggio di Rob Rensenbrink. Finì con un 3-1 non troppo umiliante, ma solo grazie alle prodezze di Zoff.
La risalita fu lenta e faticosa. L’Italia mancò la qualificazione agli Europei slavi. Uno stuolo di debuttanti furono chiamati da Bernardini, che lanciò lo slogan della nazionale dai “piedi buoni”. Prima di reclutarli però passò del tempo. Tanti transitarono senza lasciare traccia. Alla crisi della nazionale, si sommò quella delle squadre di club, che per lungo tempo stentarono nelle competizioni continentali. Dopo le finali di Coppa dei Campioni di Inter e Juventus, entrambe perdute contro l’invincibile Ajax, e la conquista della Coppa delle Coppe da parte del Milan nel 1973, si aprì un periodo in cui una trasferta a Sofia contro il Levski Spartak o a Glasgow contro i Rangers arrestavano il cammino delle squadre italiane. Liverpool, Bayern Monaco o Anderlecht sembravano provenire dall’iperspazio.
La riscossa venne dalla nazionale, cui Bearzot, istruito dai viaggi di studio in giro per l’Europa, fornì un modello di gioco ibrido fra la modernità dell’eclettismo dei ruoli e la tradizionale solidità difensiva italiana. La serie A, con il 100% dei giocatori impiegati eleggibili per la selezione azzurra, gli mise a disposizione un novero di fuoriclasse e grandi giocatori. A riprese successive, arrivarono Gentile, Scirea e Tardelli, poi Bettega e Graziani, infine Cabrini e Rossi. Il Vecio li fuse in un gruppo compatto e coeso, responsabile del ritorno dell’Italia al vertice del movimento calcistico nel quadriennio 1978-1982.
L’aura di primato assicurata dal trionfo di Madrid, assieme alla decisione di riaprire le frontiere a un massimo di due stranieri, fece confluire nel campionato italiano i migliori giocatori di ogni latitudine. Arrivarono Falçao, Zico, Platini, Boniek, Passarella, Maradona, e poi ancora Rummenigge, Cerezo, Laudrup, Van Basten e Careca. A ragione, fu coniato il brand del “campionato più bello del mondo”. I club dettavano legge nelle coppe europee e in nazionale giunsero i talenti nati negli anni ’60. L’onda lunga invase anche i primi anni del nuovo millennio, la generazione degli anni ’70 vinse le ultime Champions League e addirittura un nuovo titolo mondiale. Da allora, il ricambio si è interrotto.
Le cause sono note, ma nessuno ci mette mano: l’abbandono dei vivai e la sostituzione della crescita dei giovani con l’acquisto di stranieri provenienti da ogni angolo del globo; le rose ipertrofiche e le troppe squadre nei tornei professionistici (20 in serie A e addirittura 22 nella cadetteria); la progressiva scomparsa dei giocatori italiani, quasi assenti nelle squadre cosiddette di prima fascia, e la conseguente riduzione della base cui il selezionatore Antonio Conte può attingere. Un nuovo Arpino forse oggi racconterebbe l’abisso del calcio italiano come metafora delle difficoltà del paese, che si dibatte in una disfacimento politico, economico e sociale, ormai avvitato su stesso.
La storia ci insegna che il pendolo oscilla, ma nel momento dell’inversione di rotta la velocità si azzera e il pendolo si ferma. O, per dirla con gli economisti, questa potrebbe essere la fase stagnante di una lunga crisi a “U”. In assenza di provvedimenti correttivi, che possono discendere solo da un’autorità super partes che metta d’accordo le egoistiche componenti del movimento calcistico, il rischio concreto è invece l’eclissi totale, un esito a “L”, come quello che hanno già conosciuto ex nobili del calcio europeo come l’Austria e l’Ungheria.